G.r.i.s. Gruppo Ricerca Informazione Socio Religiosa Diocesi di Rimini
«Partendo dall’intima natura della fede cristiana e al contempo dalla natura del pensiero ellenistico fuso ormai con la fede si può dire che "non agire con il logos è contrario alla natura di Dio"»
«Se escludiamo dalla sfera della ragione il problema di Dio, facendolo
apparire come ascientifico o pre-scientifico ci troviamo davanti a una riduzione
del raggio della scienza E alla fine è l’uomo a uscirne ridotto»
«Tra le possibilità che la scienza apre all’uomo vediamo anche delle minacce Potremo dominarle solo superando la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile attraverso l’esperimento »
Benedetto XVI
Pubblichiamo il testo integrale del discorso
rivolto ieri da Benedetto XVI al mondo della scienza all'Università di Ratisbona.
Illustri signori, gentili signore!
È per me un momento emozionante stare ancora una volta sulla cattedra dell'università
e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente,
ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l'Istituto superiore
di Frisinga, iniziai la mia attività di insegnante accademico all'università
di Bonn. Era - nel 1959 - ancora il tempo della vecchia università dei professori
ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi,
ma in compenso c'era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto
anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze
dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente
anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni
semestre c'era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte
le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell'intera università,
rendendo così possibile una vera esperienza di universitas: il fatto che
noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci
di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell'unica
ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune
responsabilità per il retto uso della ragione - questo fatto diventava esperienza
viva. L'università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà
teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla ragionevolezza
della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del «tutto»
dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la
fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi.
Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche
quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleg hi aveva detto che
nella nostra università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano
di una cosa che non esisteva - di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo
così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo
della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della
fede cristiana: questo, nell'insieme dell'università, era una convinzione
indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal
professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore
bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d'inverno del
1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam
e sulla verità di ambedue. Fu poi probabilmente l'imperatore stesso ad annotare,
durante l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo;
si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto
più dettagliato che non le risposte dell'erudito persiano. Il dialogo si
estende su tutto l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia
e nel Corano e si sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo,
ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le «tre Leggi»:
Antico Testamento - Nuovo Testamento - Corano. Vorrei toccare in questa
lezione solo un argomento - piuttosto marginale nella struttura del dialogo
- che, nel contesto del tema «fede e ragione», mi ha affascinato e che mi
servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio (controversia) edito dal professor Khoury, l'imperatore
tocca il tema della jihad (guerra santa). Sicuramente l'imperatore sapeva
che nella sura 2, 256 si legge: «Nessuna costrizione nelle cose di fede».
È una delle sure del periodo iniziale in cui Maometto stesso era ancora
senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche
le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa
la guerra santa. Senza soffermars i sui particolari, come la differenza
di trattamento tra coloro che possiedono il «Libro» e gli «increduli», egli,
in modo sorprendentemente brusco, si rivolge al suo interlocutore semplicemente
con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere,
dicendo: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai
soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere
per mezzo della spada la fede che egli predicava». L'imperatore spiega poi
minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza
è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e
la natura dell'anima. «Dio non si compiace del sangue; non agire secondo
ragione (logos) è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima,
non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della
capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della
violenza e della minaccia… Per convincere un'anima ragionevole non è necessario
disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque
altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…».
L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante
la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio.
L'editore, Theodore Khoury, commenta: per l'imperatore, come bizantino cresciuto
nella filosofia greca, quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana,
invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a
nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza.
In questo contesto Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez,
il quale rileva che Ibn Hazn si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe
legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare
a noi la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria.
Qui si apre, nella comprensione di Dio e quind i nella realizzazione concreta
della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La
convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura
di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso
che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco
nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia.
Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, Giovanni ha iniziato
il prologo del suo Vangelo con le parole: «In principio era il logos». È
questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce con logos.
Logos significa insieme ragione e parola - una ragione che è creatrice e
capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha
donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui
tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la
loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos
è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero
greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale
si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì
la sua supplica: «Passa in Macedonia e aiutaci!» (cfr At 16,6-10) - questa
visione può essere interpretata come una «condensazione» della necessità
intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l'interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il
nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall'insieme
delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo essere, è,
nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia
il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso. Il processo
iniziato presso il roveto raggiunge, all'interno dell'Antico Testamento,
una nuova maturità durante l'esilio, dove il Dio d'Israele, ora privo della
Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi
con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: «Io sono». Con
questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo,
che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sono
soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta
la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere
con la forza l'adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico,
la fede biblica, durante l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro
alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole
che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale.
Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata
in Alessandria - la «Settanta» -, è più di una semplice (da valutare forse
in modo poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza
testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della
Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per
la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato
decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra
autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima natura
della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero ellenistico
fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire «con il logos»
è contrario alla natura di Dio.
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono
sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito
greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo
agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica,
la quale alla fine portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto
la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in
virtù della quale Egli av rebbe potuto creare e fare anche il contrario
di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni
che, senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn e potrebbero portare
fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità
e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo
così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e
del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali
rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni
effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta
alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e
la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui certo le dissomiglianze
sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto
da abolire l'analogia e il suo linguaggio (cfr Lat IV). Dio non diventa
più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo
puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato
come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore.
Certo, l'amore «sorpassa» la conoscenza ed è per questo capace di percepire
più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del
Dio-logos, per cui il culto cristiano è un culto che concorda con il Verbo
eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra
la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco,
è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia
delle religioni, ma anche da quello della storia universale - un dato che
ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che
il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante
nell'Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva
in Europa. Possiam o esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al
quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato
l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare
Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte
integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della dis-ellenizzazione
del cristianesimo - una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina
in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono
osservare tre onde nel programma della dis-ellenizzazione: pur collegate
tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono
chiaramente distinte l'una dall'altra.
«Bisogno di dialogo vero»
La dis-ellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati fondamentali
della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche,
i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede
condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione
della fede dall’esterno in forza di un modo di pensare che non derivava
da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come
elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura
invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente
originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto
derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare
ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare
il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma
con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato
la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l’accesso al tutto
della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel
programma della dis-ellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf
von Harnack. Dur ante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della
mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche
nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione
di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento.
Non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere
in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda
di dis-ellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare,
in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice,
che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle
ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero
culmine dello sviluppo religioso dell’umanità. Gesù avrebbe dato un addio
al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato
come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di ciò è in fondo
di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo,
appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio
la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso,
l’esegesi storico-critica del Nuovo Testamento sistema nuovamente la teologia
nel cosmo dell’università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente
storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù
mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica
e di conseguenza anche sostenibile nell’insieme dell’università. Nel sottofondo
c’è l’autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle
«critiche» di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero
delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per
dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo,
che il successo tecnico ha confermato. Da u na parte si presuppone la struttura
matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che
rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo
presupposto di fondo è, per così dire, l’elemento platonico nel concetto
moderno della natura. Dall’altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale
della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare
verità o falsità mediante l’esperimento fornisce la certezza decisiva. Il
peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall’una
o più dall’altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come
J. Monod si è dichiarato convinto platonico o cartesiano.
Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione.
Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria
ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza
deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano
le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia,
cercano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per
le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale
esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o
pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione
del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.
Torneremo ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente
che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla
teologia il carattere di disciplina «scientifica», del cristianesimo resterebbe
solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: è l’uomo stesso che con
ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente
umani, cioè quelli del «da dove» e del «verso dove», gli interrogativi della
religione e dell’ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune
ragione descritta dalla «scienza» e devono essere spostati nell’ambito del
soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli
appare religiosamente sostenibile, e la «coscienza» soggettiva diventa in
definitiva l’unica istanza etica. In questo modo, però, l’ethos e la religione
perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell’ambito della
discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l’umanità:
lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione
– patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene
ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la
riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un’etica partendo
dalle regole dell’evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente
insufficiente.
Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento,
devo accennare ancora brevemente alla terza onda della dis-ellenizzazione
che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità
delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi
nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe
vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare
indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire
il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo
nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata;
è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato
scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito
greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico
Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa
antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni
di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca
della ragione umana, queste decisioni di fondo fann o parte della fede stessa
e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee,
di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente
l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo,
rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno
dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati
per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi
nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del
resto, è volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento
che fa parte della decisione di fondo dello spirito cristiano. Non ritiro,
non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento
del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia
di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono
da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo
solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo
la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento,
e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso
la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma
come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della
fede, deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle
scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle
religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo
occidentale domina largamente l’opinione, che soltanto la ragione positivista
e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture
profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del
divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni
più inti me. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la
religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo
delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali,
con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di
dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità
metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale
della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali
operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso
metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve
essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare
– alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per
la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni
religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce
una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione
inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere.
Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti
si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate
dice: «Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell’irritazione per tante
cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso
sull’essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell’essere
e subirebbe un grande danno». L’Occidente, da molto tempo, è minacciato
da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione,
e così può subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza
della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma
con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra
nella disputa del tempo presente. «Non agire secondo ragione (con il logos)
è contrario alla natura di Dio», ha detto Manuele II, part endo dalla sua
immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a questo grande
logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture
i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande
compito dell’università.
La pagina è tratta dal sito di Avvenire online: http://www.avvenire.it