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In difesa del motu proprio
di Franco Cardini

So che il mio,in questa sede e in questo contesto, è un difficile còmpito. Cattolico, tradizionalista, uomo d'ordine e di forte senso dello stato, potrei forse ancora dirmi “di destra”. Da anni non mi considero né mi autoqualifico più in tal modo: ma vedo che così continuano ad etichettarmi, confesso che la cosa mi secca un po' tuttavia lascio correre. Ma la mia tensione verso la giustizia sociale e il mio convinto europeismo m'impediscono di provar la minima simpatìa per una destra che ormai ha scelto quasi all'unanimità il liberismo e l'atlantismo più sfrenati e che sovente ostenta anche un filocattolicesimo peloso, strumentale, palesando di ritener la Chiesa cattolica solo un baluardo dell'ordine costituito (l' “ordine” di lorsignori) e del benpensantismo conformista. Lo dico chiaramente: non mi piacciono i cattolici che con la scusa della difesa della “civiltà occidentale” ammirano quel monumento all'ipocrisia e all'uso politico della fede che sono gli “atei devoti”; né apprezzo le ragioni del tutto strumentali per le quali alcuni “laici” simpatizzano per la Chiesa di Ratzinger.


Non mi sogno nemmeno di finger di dimenticare che proprio da tali ambienti sono partite, con pochissime eccezioni – il sempre lucido e paradossale Guido Ceronetti, per esempio – le difese d'ufficio del Motu Proprio con il quale Benedetto XVI autorizza di nuovo esplicitamente ed estensivamente l'uso (mai del resto prima proibito) della lingua latina nella liturgia ecclesiale cattolica, in particolare nella messa. Non mi sono affatto piaciuti gli accenti rancorosi e trionfalistici con i quali certi cattolici, oggi vicini ai teocons americani e convinti che Cristianità e Occidente moderno siano tutt'uno (e che magari l'aggressione all'Afghanistan e all'Iraq sono state guerre “giuste”, se non addirittura “sante”...) hanno salutato con poco caritatevoli “Avevamo ragione noi” un documento pontificio le ragioni del quale sono ben più alte e profonde di quanto non sospetti chi pensa a un regolamento di conti fra opposte cosche vaticane. Non apprezzo per nulla, del resto, il fariseismo di pessima lega degli ipercattolici tutti Dio, Embrione e Famiglia che accolgono con entusiasmo quanto meno sospetto dal “musulmano”(?) Magdi Allam lezione di difesa della Cristianità e che non mostrano di preoccuparsi nemmeno un po' dei mali derivanti nel mondo dall'ingiustizia dilagante e degli innocenti che ogni giorno muoiono in tutto il pianeta per carenza di cibo, d'igiene e perfino d'acqua, mali a gran parte dei quali i Signori della Finanza e della Tecnologia e i politici che ne sono Comitato d'Affari potrebbero in buona parte ovviare se solo accettassero di rinunziare a una fettina dei loro profitti.
D'altronde, ho visto molti cattolici e molti vescovi che oggi sento più vicini al mio modo d'intendere il cattolicesimo assumere una posizione ostile o comunque molto riservata di fronte alla scelta liturgica e disciplinare del Santo Padre. Mi ha allarmato la critica molto dura, se l'ho intesa a dovere, del priore di Bose, Enzo Bianchi, che ammiro e col quale di solito mi sento sempre, da molto tempo ormai, in sintonìa.


Questo disagio non m'impedisce, tuttavia, di provare una gioia straordinaria e di esprimere un consenso incondizionato rispetto alla decisione di Benedetto XVI. E di proclamare ad alta voce che sbaglia chiunque (non importa se “da destra” o “da sinistra”) legge in essa, ingenerosamente e riduttivamente, un tentativo di “rimandar indietro le lancette dell'orologio della storia, o di compiacere questo o quell'ambiente conservatore, o di far rientrare una volta per tutte le istanze “scismatiche” dei residui ambienti lefevriani. Niente di tutto ciò. Il papa vola ben più alto e scende molto più in profondo.
Non si tratta per nulla di “tornare indietro”. Al contrario, papa Ratzinger guarda avanti eccome. Ristabilendo la piena legittimità di utilizzare il rito del Messale di san Pio V, avallato nel 1962 da Giovanni XXIII, egli non cancella affatto l'uso delle lingue moderne (“vernacole”, come si dice), ma ne consente con pienezza di libertà l 'utilizzazione e addirittura ne autorizza la convivenza con il latino laddove ciò sia pastoralmente opportuno. La sensibilità dei vescovi e del clero nell' amministrare le opportunità consentite da questa nuova risorsa liturgico-culturale è il criterio che il “Motu Proprio” pontificio privilegia; il consenso delle singole comunità e la collaborazione interna a ciascuna di esse tra clero e popolo è il principale requisito raccomandato nelle scelte che guideranno la rinnovata vita liturgica.
A questo punto, va detta un'altra cosa che non tutti sanno o mostrano di aver capito. Il latino non è, non è mai stato, una “lingua morta”. Esso resta il paradigma idiomatico-culturale di tutta una civiltà che non è soltanto occidentale, ma che è universale: non solo la liturgia e la teologia, bensì anche la filosofia, la scienza, la diplomazia e soprattutto il diritto che tutto il mondo seguiva, o al quale esso comunque guardava, si sono espressi fino a tutto il XVIII secolo in latino. Fino ad allora,le lezioni universitarie si tenevano in latino. Perfino nelle corti di Mosca, di Istanbul, di Isfahan, di Delhi, di Pechino e di Kioto si ricevevano messaggi diplomatici redatti in latino da parte delle potenze occidentali e in tale lingua si rispondeva.
Nella nostra povera piccola Italia, molti borghesucci piccoli piccoli hanno acclamato alla “liberazione” quando una trentina di anni fa le nostre scuole, sbagliando, hanno ridotto il peso e l'importanza del latino (proclamato “inutile”) fino a farlo quasi sparire nel ”training” educativo dei nostri ragazzi. Ma dev'esser chiaro che ciò non è stato un bene neppure sotto il profilo pratico, funzionale e utilitario: da allora si è cominciato a deteriorare anche l'uso dell'italiano nelle stesse classi “colte”, mentre le possibilità di studiare con profitto le lingue straniere (specie quelle che, come il tedesco e il russo, presentano rispetto al latino grosse affinità strutturali) si sono andate restringendo; e sono affiorate per contro difficoltà crescenti nell'uso dei linguaggi scientifico e tecnologico, profondamente permeati di elementi lessicali latini. E, del resto, il nostro cronico provincialismo c'impediva di vedere che, in altri paesi, non accadeva affatto quel che succedeva da noi :altrove, dalla Germania alla Polonia alla Boemia fino al Giappone, gli istituti di alta cultura scolastica si guardavano bene dall'abbandonare lo studio del latino. La Chiesa cattolica statunitense gli è rimasta, dagli Anni Ottanta ad oggi, estesamente e profondamente fedele. In Finlandia esiste un'emittente radiofonica, seguitissima nel paese e molto ascoltata all'estero, che diffonde in latino qualunque tipo di notizia, incluse le economiche, le politiche e le sportive. Dall'America alla Cina si vanno facendo esperimenti di adattamento del linguaggio informatico all'idioma latino, e molti esperti assicurano che la lingua di Cesare e di Virgilio è, a tale scopo, obiettivamente e in linea di principio molto più duttile e pratica di quella di Shakespeare (per non parlare di quella di Bush...).


Ma vediamo anche l'aspetto propriamente religioso ed ecclesiale. Nulla come il latino predispone a un autentico “Ut unum sint” in tutta la Chiesa. Che i cattolici di tutto il mondo possano tornar a pregare insieme, e attraverso il linguaggio della preghiera a rivalorizzare in senso assoluto uno strumento fondamentale di comunicazione e di pensiero, è un fatto di straordinaria importanza. La realtà si conosce attraverso il tramite linguistico: questa è la grande lezione che la migliore psicanalisi e la migliore semiotica ci hanno impartito nel corso del XX secolo. Come ha dimostrato Sigmund Freud, il linguaggio onirico si esprime per moduli strettamente legati all'idioma materno del sognante. Le realtà profonde si colgono solo secondo una lingua data. Ebbene, sappiatelo chiaramante, o cristianucci occidentali: l'Occidente conosce Dio in latino, e solo attraverso il latino Lo capisce appieno.
Da qui, è ovvio,discende quindi la necessità di rivedere le tradizioni vernacole della liturgia, delle quali il rinnovato confronto con il latino paleserà tutta l'inadeguatezza. Non potremo continuar più a tradurre lo splendido “Agnus Dei, qui tollis peccata mundi” con un insulso, stupido e sbagliato “Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo”. Incarnandosi e salendo sulla croce, il Cristo non ha “tolto” un bel niente. Al contrario: ha assunto su di sé (questo l'autentico significato del verbo latino tollere, che significa “prendere” e “sostenere”) il peso di tutti quei peccati e li ha pagati col sacrificio del Suo sangue.
E va da sé che nessun cattolico vorrà più, nella liturgia del Giovedì Santo, pregare “et pro perfidis Iudaeis”. La parola “perfidus”, in latino, ha il significato etimologico di “colui che si è allontanato dalle fede”: il che, dal punto di vista cristiano, si può ben dire degli ebrei che, atteso fedelmente per secoli il Messia, quando Egli è arrivato non lo hanno riconosciuto. Ma non va certo ignorato che quella parola ha semanticamente assunto, nel linguaggio comune, il valore di “perverso”, “feroce”, ”malvagio”. Era quindi cattiva, in tutti i sensi”, la traduzione italiana “preghiamo per i perfidi giudei”, che aveva finito per assumere un odioso connotato razzistico. Io spero che, nella riproposizione latina della liturgia, la preghiera per gli ebrei (ora stolidamente abolita: come cattolico, esigo di continuar a pregare per loro) venga restaurata con un bel “Oremus et pro fratribus nostris Iudaeis”; e sia magari accompagnata da preghiere per gli altri nostri fratelli, per tutti. I musulmani, gli aderenti alle altre religioni del mondo, i non-credenti, gli atei. Solo così la lingua latina tornerà sul serio a essere quel ch'è profondamente sempre stata: l'autentica lingua della pace universale; la lingua di quei due giganti dell'ideale di fratellanza umana che sono stati Marco Aurelio e sant'Agostino.


Ecco perché credo che il Motu Proprio di papa Benedetto XVI vada accolto con gioia e con ammirazione. Non vuol tornare indietro: interpreta il presente e guarda con generosa lucidità al futuro. Non vuol dividere: intende unire. Non vuol impoverire e ridurre: arricchisce, amplia, innalza, approfondisce. Ma dev'essere correttamente inteso: senza pregiudiziali equivoci “di sinistra”, senza miserabili strumentalizzazioni “di destra”. Non è né di destra, né di sinistra. E' al di sopra e avanti.

Franco Cardini

18 07 2007