Card. Carlo Caffarra,
Arcivescovo di Bologna
Testo della seconda lezione tenuta il 22 novembre dal
Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, ai docenti dell’Università
di questa città, l’Alma Mater Studiorum.
Zenit 02.12.2006
L’uso positivistico della ragione e il “fatto cristiano”,
secondo il Cardinale Caffarra
BOLOGNA, sabato, 2 dicembre 2006 (ZENIT.org
<http://www.zenit.org/> ).- Pubblichiamo
il testo della seconda lezione tenuta il 22 novembre dal Cardinale Carlo
Caffarra, Arcivescovo di Bologna, ai docenti dell’Università di questa città,
l’
Alma Mater Studiorum.
Il ciclo di lezioni che ha avuto per titolo “Fede e ragione: una difficile
ma necessaria convivenza” si è concluso il 29 novembre.
* * *
Perché l’uomo possa colla sua ragione muoversi
verso la fede cristiana deve guarire la sua ragione da quell’uso positivistico
in cui essa ha deciso di imprigionarsi. Oggi è più che mai necessario
partire da una critica rigorosa di questa autolimitazione, e ridonare
alla ragione tutta la sua audacia. Partiamo da una semplice domanda: perché
una persona può pensare che solo la conoscenza scientifica – l’uso della
ragione proprio del metodo scientifico – può condurci alla verità oggettiva,
mentre qualsiasi risposta data alle grandi domande etiche e religiose
non può mai assurgere alla dignità di risposta razionalmente argomentabile
e quindi vera o falsa? Che cosa può portare una persona ad avere una considerazione
del sapere scientifico come qualcosa di incomparabilmente superiore e
manifestare un atteggiamento sprezzante verso tutte le reali domande della
filosofia?
Inizio la riflessione odierna cercando di capire questa situazione. La
prima osservazione è che un tale atteggiamento presuppone che si possano
trattare argomenti metafisici, etici e religiosi collo stesso metodo con
cui si fa in laboratorio l’analisi del sangue. Una tale presupposizione
non conduce su una strada sbagliata la ricerca metafisica, etica religiosa:
non la fa neppure iniziare. Essa infatti interdice semplicemente di avere
un qualsiasi incontro o contatto con le realtà che sono oggetto della
ricerca metafisica, della ricerca etica o della ricerca religiosa, quali
per esempio la vera natura del bene e del male morale, dell’agire umano
e così via.
Parlavo poc’anzi di una mutilazione della ragione, ora siamo in grado
di capire il significato esatto di questa metafora. Come per entrare in
contatto con tutta la realtà sensibile non mi bastano gli occhi che mi
fanno solo vedere i colori, mentre la realtà sensibile che sono i suoni
mi sfugge se non uso l’udito o sono sordo, analogamente avviene nel mondo
dello spirito. La realtà non è abitata da enti che si dispongono tutti
sullo stesso piano ed un oggetto può differire da un altro in maniera
essenziale, nonostante eventuali somiglianze [la virtù della castità non
è l’assenza di stimoli sessuali; l’atto libero non è l’atto spontaneo].
È dunque necessario fare uso di tutta la capacità della ragione, altrimenti
intere regioni dell’essere restano inesplorate e sconosciute. Non posso
chiudere gli occhi per non essere distratto e così vedere meglio la bellezza
di un quadro di Caravaggio; ma posso chiudere gli occhi a questo scopo
quando ascolto una sinfonia di Mozart. L’ «organo» spirituale di cui faccio
uso deve essere adeguato al tipo di oggetto in questione. Le questioni
metafisiche, etiche e religiose esigono un uso della ragione profondamente
diverso da quello esigito dalle questioni scientifiche. Sia la metafisica
che l’etica e la fede aprono la porta ad una regione dell’essere che esige
di essere esplorato con strumenti propri.
Il prezzo che l’uomo paga quando perde la chiave che gli consente di entrare
in tutta la realtà, e non solo in quella regione che gli viene aperta
dalla scienza, è molto alto. «Qualsiasi siano state in passato, per esempio,
la filosofia e la sua concezione dell’amore, mai prima d’ora gli uomini
hanno negato nella loro vita la realtà dell’amore fra uomo e donna; mai
i poeti hanno cessato di cantarlo e di lodarlo. Solo ora le teorie che
lo riducono a un istinto sessuale sublimato stanno iniziando a corrodere
il contatto vivo con l’amore. Non solo l’amore, ma la verità; non solo
la verità, ma la bellezza, l’arte, l’autorità, la felicità: tutto ha iniziato
a languire a causa della influenza corrosiva delle teorie che li confondono
con altre cose, o che li negano completamente, perché non sono accessibili
alla semplice osservazione e alla “verifica empirica da parte di una comunità
di osservatori neutrali» [D. von Hildebrandt, Che cos’è la filosofia,
Bompiani ed., Milano 2001, ed. orig. 1991, pag. 63].
In uno dei testi letterari più importanti e significativi del secolo scorso,
L’uomo senza qualità di R. Musil, forse il più importante scrittore tedesco
del Novecento, il marito che piange disperatamente la morte della moglie,
urla: perché sei morta? Ed ecco la risposta scientificamente esatta ma
drammaticamente priva di senso che riceve dallo scienziato: caro signore,
sua moglie è morta per arresto del cuore. La ragione si automutila quando
pensa che non potendo avere domande come queste risposte scientificamente
verificabili, devono essere giudicate prive di senso oppure non suscettibili
di risposte vere o false.
All’inizio della modernità, uno dei padri della scienza moderna, B. Pascal,
aveva fortemente e pienamente attirato l’attenzione sul rischio di questa
automutilazione della ragione; così come, più vicino a noi, un grande
pensatore cattolico, il Card. J.H. Newmann. Mi limito a citare un testo
di Pascal: «Le persone ordinarie hanno il potere di non pensar a ciò cui
non vogliono pensare… Ma ci sono taluni che non hanno il potere di impedirsi
di pensare così; anzi, pensano quanto più viene loro impedito. Costoro
si liberano dalle false religioni, e anche dalla vera, se non trovano
ragionamenti fondati» [259,485].
La domanda centrale di questa seconda lezione è allora la seguente: quale
uso della ragione può sostenere l’uomo nella sua fede e rendere la sua
decisione di credere una decisione ragionevole? Non mi propongo quindi
ciò che si propone l’apologetica cristiana: difendere con argomenti razionali
il valore della fede in Dio e della Rivelazione giudaico-cristiana. È
una riflessione potremmo dire di carattere critico-epistemologico, che
tende ad individuare quel “paradigma di ragionevolezza” che implica la
scelta di credere nella proposta cristiana quando è – come deve essere
– una scelta ragionevole.
1. Penso che si debba partire dalla definizione netta di ciò in cui crede
chi professa la fede cristiana, dalla determinazione dell’oggetto della
fede cristiana. Esso è una persona: è Gesù Cristo Dio fattosi uomo. Forse
nessuno nella modernità ha espresso con più forza di S. Kierkegaard la
“provocazione” che questa proposizione costituisce per quell’uso della
ragione che ha caratterizzato l’occidente, quando il filosofo danese formula
nel modo seguente quello che chiama il “problema di Lessing”: «È mai possibile
costruire una salvezza eterna su un fatto storico? Ossia come mai un fatto
storico può essere decisivo per una salvezza eterna? Ci può mai essere
un punto di partenza storico per una coscienza eterna? Questo punto di
partenza può avere un interesse diverso da quello storico? Si può fondare
una beatificazione eterna su un sapere storico?» [Postilla conclusiva
non scientifica, sez. I, cap. I, § 3]. Chi crede risponde affermativamente
a questa serie di domande poiché quel fatto storico è creduto incomparabile
con qualsiasi altro fatto storico, assolutamente singolare fra tutti i
fatti storici. Quale ragione mette in atto, che uso fa della sua ragione
chi crede che Gesù di Nazareth è Dio fattosi uomo?
Partiamo da un esempio molto semplice. Se mi ammalo gravemente, è inevitabile
che mi faccia una domanda: perché è accaduto? In realtà questa domanda
ha due significati profondamente diversi. Essa può domandare quali sono
state le cause che spiegano l’insorgere nel mio organismo di quel fenomeno
morboso in ordine alla scelta della terapia che la scienza ritiene più
efficace. Ma la domanda ha anche un altro significato, poiché chiede che
senso ha nella mia vita la sofferenza, e non raramente questa domanda
conduce l’uomo dentro ad un orizzonte che pone in questione il senso dell’intero.
Non è tanto difficile comprendere che l’esercizio della ragione messo
in atto nel rispondere al primo senso della domanda è profondamente diverso
dal secondo. Nel primo è un esercizio, diciamo, spersonalizzato: la diagnosi
è fatta in larga misura perfino da macchine. La malattia è un problema
da risolvere. Nel secondo caso esercito la mia ragione in una modalità
nella quale la mia soggettività è profondamente coinvolta così come quella
delle persone cui mi rivolgo. La malattia cessa di essere un problema
da risolvere e diventa un mistero da de-cifrare. Chiamiamo la prima una
“razionalità neutra”.
E siamo così – penso – alla domanda di fondo che costituisce il nodo del
nostro quotidiano assillo: la vita, alla fine, è solo un «problema da
risolvere» o è anche e soprattutto «un mistero da decifrare»? e quando
e come è dato all’uomo di scoprire e dire questa cifra? sono da ritenersi,
queste, domande cui è impossibile rispondere con verità o falsità? sono
il segno di chi non è stato ancora consolato dalla luce benefica del sole
della scienza? oppure aveva ragione il poeta che più di ogni altro sentì
il peso di queste domande, a scrivere: «Omai disprezza/ Te, la natura,
il brutto/ Poter che, ascoso, a comun danno impera, / e l’infinita vanità
del tutto» [G. Leopardi, A se stesso]?
L’esempio ci aiuta, credo, molto bene. La ragionevolezza, l’uso della
ragione messo in atto da chi crede non è del primo tipo, ma del secondo.
Chi continua a ritenere che merita il nome di ragione solamente quella
espressa dal primo paradigma [la “razionalità neutra”], si preclude definitivamente
l’ingresso nell’universo della fede.
È una domanda di senso che muove l’uomo a credere; è il desiderio di una
vita buona non insidiata dalla morte. Ora questa domanda viene contraddetta
quotidianamente da una serie di fatti che quanto meno sembrano dire che
quel desiderio è vacuo; è destinato a non trovare risposta. In questa
condizione l’uomo può giungere all’esito tragico espresso dal testo leopardiano.
Ma può anche portare ad una sorta di “mutilazione del desiderio”: non
potendo avere ciò che desideri, limitati a desiderare ciò che hai. È un
accontentarsi del finito: spem nimis longam reseces [Orazio]. Ora
la ragione che giudica “scandaloso” il dissidio tra le aspirazioni dell’uomo
e le sue delusioni, non si rassegna a piegare la domanda di senso nell’accontentarsi
del mediano [= usiamo quel poco di grandezza di cui disponiamo per limitare
il più possibile la nostra miseria], ma si chiede se non ci sia una risposta
reale al desiderio umano di salvezza.
L’uomo dispone in proprio infatti di un solo strumento, la sua ragione,
per cercare la risposta vera a quella domanda. Agostino ha visto in profondità
quando scrisse che tutta la ricerca filosofica dell’uomo è ricerca della
vita beata: una ricerca nella quale si impastano assieme desiderio e ragione
[1]. È una ricerca messa in atto da un desiderio ragionevole e da una
ragione desiderante: è questo l’uomo! Uno dei mali più gravi di
oggi è la separazione sempre più netta tra ragione e desiderio: conoscere
razionalmente la realtà significa misurarla con misura spersonalizzata;
desiderare è un mero fatto soggettivo, senza ragioni universalmente condivisibili.
2. Lasciamo per ora questa riflessione di carattere prettamente antropologica
e posiamo il nostro sguardo attento sul Fatto cristiano. Come si presenta
a noi il «Fatto cristiano»? Iniziamo subito col dire la cosa più ovvia;
si presenta come un fatto, un avvenimento. Esso non si presenta e non
è individuabile in primo luogo come un’idea o una dottrina. È un fatto
che si pone in mezzo ad altri fatti che tessono la trama della storia
umana. Detto questo, possiamo ora descriverlo nella sua originale auto-presentazione.
Esso si auto-definisce come Presenza e non semplicemente come Memoria.
Se uno sentendosi dire che il cristianesimo è un fatto, si facesse la
domanda più logica: dove e quando è accaduto? ogni fatto è definito in
primo luogo dalle sue coordinate spazio-temporali. La risposta è: accade
qui [a Bologna, a Parigi …] e oggi. In questo senso dicevo: è una Presenza.
Deduco subito, prima di procedere oltre, una conseguenza. Per un fatto
che sia solamente passato, c’è un solo modo di esserne coinvolti: quello
di venire a conoscenza della documentazione che lo attesta e lo descrive.
Si può perfino “mettere in scena” questa documentazione e – appunto si
dice – ripresentarla: esiste una drammaturgia storica che comprende anche
autentici capolavori. Se il fatto cristiano non è una “presenza”; se non
è un avvenimento che accade ora e qui, la via per divenire partecipe è
una sola: leggere la Bibbia che ne è la testimonianza ed eventualmente
renderlo presente attraverso una vita vissuta oggi come pratica di quanto
è scritto e documentato. Se non vado errato, questo è stato l’approccio
illuministico al Fatto cristiano. In questo approccio – di cui siamo ancora
discepoli – il Fatto cristiano o resta come bloccato nella novità della
suo originario accadere oppure nella sua realizzazione pratica da parte
dell’uomo. Nel primo caso è inevitabile la difficoltà insormontabile nel
rispondere alla domanda: come può un uomo del nostro tempo, più di duemila
anno dopo la venuta di Cristo nella carne, raggiungere una certezza ragionevole
su questo avvenimento? Nel secondo caso il Fatto cristiano viene progressivamente
ridotto ad una programmazione etica, ad un dover-essere di cui Cristo
sarebbe l’esempio [ma poi: esempio di che cosa?] ma che compete all’uomo
elaborare e realizzare. O biblicismo o moralismo. Ma continuiamo a riflettere
sull’identità del Fatto cristiano.
Se è un fatto che accade ora, se è una Presenza, è però ugualmente vero
che non accade ora e qui per la prima volta: il Fatto cristiano non inizia
ad accadere adesso e in questo luogo. Esso è accaduto la prima volta duemila
anni orsono in una regione della Palestina, e continua ad accadere ora
e qui. Vorrei che poneste la vostra attenzione sul verbo che ho usato:
«continua». È lo stesso identico avvenimento che accaduto duemila anni
fa in Palestina, accade ora. Non è preciso dire: “per la prima volta”
come se ce ne fosse un seconda, una terza e così via. È esatto dire: è
accaduto una volta per sempre, poiché è lo stesso Avvenimento. Il
vocabolario cristiano ha una parola tecnica per connotare tutto questo:
Tradizione. Essa sta ad indicare questa Presenza che abita dentro
al tempo degli uomini. Ma a questo punto sorgono due domande: si parla
di “Presenza”, ma di chi/ di che cosa? È la domanda fondamentale.
La seconda è: in che modo questa Presenza si realizza? Cerco di
rispondere per ordine, anche se molto sinteticamente.
Alla prima domanda rispondo: è la presenza di Gesù Cristo, Dio fatto uomo,
morto e risorto che si propone all’uomo come risposta vera alla domanda
di senso che è nel cuore dell’uomo. Mi limito ora a spiegare questa risposta.
È la presenza di un uomo esattamente come è un uomo ciascuno di noi, e
che è morto come tutti noi moriremo. Non mi fermo ora a considerare le
circostanze e la forma di questa morte. Se la morte avesse detto l’ultima
inappellabile parola sulla vicenda umana di Gesù, il Fatto cristiano semplicemente
non esisterebbe: starebbe nella serie di altre religioni. Non sarebbe
una Presenza.
Ma ciò che ne costituisce il “cuore” è che Gesù è risorto.
«La risurrezione di Cristo è un fatto avvenuto nella storia, di cui
gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori. Nello stesso tempo
essa non è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena; è invece
la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una
dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente
diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi,
tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo: per questo la
risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza
cristiana, dall’inizio e fino alla fine dei tempi. Si tratta di un grande
mistero, certamente, il mistero della nostra salvezza, che trova nella
risurrezione del Verbo incarnato il suo compimento e insieme l’anticipazione
e il pegno della nostra speranza. Ma la cifra di questo mistero è l’amore
e soltanto nella logica dell’amore esso può essere accostato e in qualche
modo compreso: Gesù Cristo risorge dai morti perché tutto il suo essere
è perfetta e intima unione con Dio, che è l’amore davvero più forte della
morte. Egli era una cosa sola con la Vita indistruttibile e pertanto poteva
donare la propria vita lasciandosi uccidere, ma non poteva soccombere
definitivamente alla morte: in concreto nell’Ultima Cena egli ha anticipato
e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel
dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci libera e ci salva. La sua
risurrezione è stata dunque come un’esplosione di luce, un’esplosione
dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte. Essa ha inaugurato
una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un
mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma
e lo attira a sé» [Benedetto XVI, Discorso al Convegno Ecclesiale
Nazionale di Verona, 19-10-2006].
La risurrezione rende presente Gesù in ogni tempo ed in ogni luogo nella
potenza di una vita che rigenera l’umanità di ogni uomo. Alla domanda:
di chi è presenza il Fatto cristiano? La risposta è: di Gesù crocifisso
risorto che vuole rendere partecipe ogni uomo della sua vita, soddisfacendo
il suo desiderio di una vita beata, eterna. E siamo alla seconda domanda:
in che modo si rende presente il Risorto? La modalità di questa
presenza ha una forma ed un nome: la Chiesa.
Il Risorto non si rende presente mediante straordinari stati d’animo che
fanno evadere l’uomo dal suo vissuto quotidiano. La presenza prende una
forma visibile e umana. Una forma che si costituisce dentro al nostro
vivere, al trascorrere dei nostri giorni mediante tre cose o tre realtà
ben visibili: l’autorità fondata sulla successione apostolica; la celebrazione
di azioni sacre che sono chiamati i sacramenti; la professione della stessa
fede. Vediamo brevemente di dire qualcosa su ciascuna di queste realtà
mediante le quali prende corpo la Chiesa e dunque la presenza del Risorto.
Cristo ha detto di se stesso si essere «via, verità e vita». È via mediante
la successione apostolica: l’autorità della Chiesa; è verità nella predicazione
della sua parola che viene accolta nella fede; è vita nella celebrazione
dei sacramenti. È mediante questi tre elementi che si costituisce la Chiesa.
Esiste fra loro una così profonda connessione che l’uno non può esistere
senza gli altri. «Così la mancanza della gerarchia di Cristo non solo
priva la società del governo legittimo e dell’ordine nelle cose spirituali,
ma di necessità vi sopprime anche la grazia dei sacramenti che sono celebrati
dal sacerdozio, e con questa mancanza della vita di grazia, cioè di una
comunione essenziale con la divinità, la stessa confessione della fede
diventa una formula morta ed astratta» [V. Solov’ëv, I fondamenti spirituali
della vita, Lipa, Roma 1998, pag. 108].
Questo è il «fatto cristiano»: la presenza del Risorto, la quale prende
corpo nella testimonianza e nella vita della Chiesa. È la forma visibile
e storica che prende il Risorto dentro alla vita dell’uomo. Quando l’uomo
incontra il «fatto cristiano» incontra il Risorto: non come realtà passata,
ma nella comunione presente della fede, della liturgia, della vita della
Chiesa. La permanente attualizzazione della presenza del Risorto espressa
nella Chiesa attraverso la successione apostolica e la comunione fraterna
è ciò che il vocabolario cristiano chiama Tradizione. È la presenza permanente
del Risorto.
Un’ultima riflessione di fondamentale importanza per approfondire un elemento
già richiamato, per delineare meglio il profilo del «fatto cristiano».
Se la Tradizione non è nella Chiesa una sorta di scrigno che bisogna aprire
per trovare “cose morte”, ma è la presenza permanente della parola e della
vita di Gesù, la parola ha bisogno di un testimone. «E così nasce questa
reciprocità: da una parte, la parola ha bisogno della persona, ma dall’altra,
la persona, il testimone, è legato alla parola che a lui è affidata e
non da lui inventata. Questa reciprocità tra contenuto – parola di Dio,
vita del Signore – e persona che la porta avanti è caratteristica della
struttura della Chiesa» [Benedetto XVI, Cat. dell’Ud. Generale del 10-05-06].
È la successione apostolica la garanzia della perseveranza nella Tradizione,
della parola e vita del Signore risorto, del permanere del «fatto cristiano».
Direi che abbiamo concluso la presentazione del «fatto cristiano» nel
suo profilo essenziale. In sintesi: il «fatto cristiano» è la presenza
di Gesù di Nazareth crocefisso-risorto nella vita e nella testimonianza
della Chiesa.
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[1] «La ragione non è un sentimento; ma c’è un sentimento della ragione
ed una ragione del sentimento. Ecco il
complementum animae, ecco
la diffida di tutta la filosofia occidentale che è concettualistica e formalistica»
[C. Fabro,
Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, PIEMME
2000, pag. 31].