G.r.i.s. Gruppo Ricerca Informazione Socio Religiosa Diocesi di Rimini
Scriviamo queste righe all’indomani delle prime votazioni “libere” in
Iraq, mentre si sta esaurendo la marea di retorica massmediale
attorno ai poteri taumaturgici di una “democrazia” che non appare
andare al di là di un metodo e di una procedura di voto autorevolmente
importati in quella terra dagli Stati Uniti d’America, ed emergono
cautamente i primi brandelli di verità attorno alla differenza
che immancabilmente passa fra una legittimità elettorale formale
ed una partecipazione reale:
uno tsunami di parole più volte ripetutosi
negli ultimi anni e che proprio in queste ultime ore sta tradendo
segni di stanchezza, e la cui obiettiva veridicità andrà ovviamente
verificata nel tempo e al di fuori della pressione dell’informazione
a senso unico (egemonizzata da alcuni dei fondamentalismi in causa),
pressione che in Europa è riuscita di fatto ad oscurare quasi
completamente ogni altra rappresentazione di una realtà che di
per sé appare cocciutamente ben più ambigua.
Nello stesso tempo, dopo l’incancrenirsi delle conseguenze dell’occupazione
militare a guida statunitense del territorio Iracheno e la polemica
sulle torture organizzate all’interno delle carceri anglo-americane
nello stesso paese (polemiche affatto sopite dalle recite giudiziarie
che hanno condotto all’”esemplare” condanna di qualche aguzzino
semianalfabeta, mentre si inizia timidamente ad aprire il capitolo
del brave new world di Guantanamo, e crediamo che le vere sorprese giungeranno
dall’apertura di questo
dossier), se la pressione massmediale del fondamentalismo protestante
statunitense e dei suoi alleati “occidentali” appare impegnato
nel tentativo di mimetizzare per mezzo dei dati elettorali iracheni
sia le crescenti difficoltà politiche e strategiche sul campo
che quelle causate dalla demistificazione della cruda realtà
dell’invasione e dell’occupazione militare del territorio iracheno
dopo e indipendentemente dalla cacciata del “dittatore” Saddam Hussein, la
posizione dell’Europa diviene cruciale, e la sua debolezza oscillante
sempre più evidente e, nel contempo, intollerabile.
Si avverte cioè sempre di più un “vuoto d’Europa”, e di fronte agli scontri
fra fondamentalismi che hanno segnato sanguinosamente gli inizi
del terzo millennio dell’era cristiana, pesa la carenza quasi
assoluta di una politica estera europea unitaria (e quindi autorevole)
ed autonoma, che consenta grazie alla sua coralità anche ai
governi nazionali più malaccorti di smarcarsi dal vicolo cieco
in cui un’adesione “cieca, pronta e assoluta” ai dogmi culturali
e politici di un occidentalismo che si rivela sempre più la
maschera di un fondamentalismo antieuropeo e destabilizzatore;
un occidentalismo venduto sapientemente, con una brillante campagna
di marketing al mercato del consenso internazionale,
ma che non ha nemmeno portato agli Stati che più entusiasticamente
ne sono stati i sottoscrittori (e l’Italia per una volta va
collocata in pole position
di questa graduatoria) i benefici economici a suo tempo autorevolmente
promessi per motivarne la partecipazione allo sforzo bellico1.
Una politica estera e di difesa europea comune, benché costituisca un progetto
che impiegherà ancora degli anni ad essere pienamente operativo,
sarà inoltre l’unica a poter consentire all’Europa di recuperare
quella funzione di ponte verso il Mediterraneo e di promotore
di educazione e cooperazione con i popoli del Vicino e Medio
Oriente che i fatti hanno dimostrato non poter essere sostituita
né dalle cannoniere volanti né dalla massiccia importazione
nel Medio Oriente di apparati repressivi e polizieschi di stampo
sudamericano2, che si sono dimostrati i migliori
alleati (sia sul piano strategico che propagandistico) di tutti
i fondamentalismi medio- ed estremo-orientali degli ultimi anni.
Ovviamente il problema è nella sua essenza culturale.
Una cultura liberal-capitalista, che fin dal suo sorgere dal ceppo illuminista
non si è mai emancipata dai propri complessi di superiorità
oramai bisecolari (e nemmeno dai simmetrici meccanismi di rifiuto
e deformazione dell’altro che ne hanno nutrito genesi ed espansione,
le avventure coloniali e neocoloniali, la genesi e la diffusione
del razzismo e tutti i deliri giacobini di diffusione a mano
armata dell’”unica civiltà” che ritiene di meritare questo nome,
sulle ceneri e le macerie di chi non si trovi dalla parte buona
del “senso della storia”) nel rapporto con altri popoli ed altre
civiltà non è riuscita a far tesoro non tanto di quella Cultura
tradizionale rifiutata dogmaticamente, ma nemmeno della lezione
delle scienze umane ed antropologiche del Novecento, rimanendo
ferma a schemi ottocenteschi di tipo materialistico ed evoluzionistico
che le hanno impedito di capire (beninteso non di convertirsi
all’altro, ma solo di comprenderlo) popoli e culture diverse da sé, se non riconducendoli
forzatamente all’interno del proprio schema ideologico come
fase primitiva e “bambina” di sé stessi, incarnazione di una
modernità che continua a percepirsi come trionfante, a dispetto
di tutte le lezioni del secolo XX.
Lo stesso è avvenuto, e sta ancora avvenendo, nei confronti di un animale
dalle caratteristiche semileggendarie, una via di mezzo fra
una Manticora ed un Ircocervo, quell’ampia e complessa esperienza
di sincresi tra ideologie della modernità e culture religiose diverse,
che è storicamente il fondamentalismo.
Fondamentalismo. Come ogni parola che entra di prepotenza nelle
correnti vorticose della comunicazione di massa, anche questa
tende a stingere il proprio significato fino a cessare di essere
un concetto dotato di confini e senso, e diventare un insulto
prêt-a-porter capace
di estendersi e spostarsi all’infinito, in mano a chi al momento detenga il potere informativo,
così anche questo termine oggi cruciale ha perso sulla strada
dell’abuso massmediale definizione e precisione, finendo per
essere usato con lo stesso stile e metodi degli insulti ideologici
della seconda metà del ‘900 (“comunista”, “capitalista”, “fascista”
etc.) e arenandosi nei medesimi risultati paradossali, come
quello di definire ripetutamente sui maggiori media occidentali
(e con notevole sprezzo del ridicolo) “fondamentalista” uno
storico esponente del socialismo arabo laico e filo-occidentale
baath come l’ex-dittatore iracheno Saddam Hussein.
Uscire da questo circolo perverso di riduzione dei concetti ad una neolingua in mano al potere è fondamentale
prima di tutto per le difesa della nostra identità e cultura,
e comporta un massiccio “ritorno al reale”, maxime
alla realtà della storia. Si esce dalla perversione ideologica,
che in modo sempre più evidente appare completamente interna
al gioco dei fondamentalismi contrapposti, solo tramite una
matura conoscenza della verità storica attorno alla nascita
del concetto di “fondamentalismo” e dei veri movimenti fondamentalismi;
un’indagine che dalla loro genesi e sviluppo trae in maniera
per molti aspetti inaspettata la conferma di una loro profonda
sintonia culturale e persino di una loro (solo in apparenza
paradossale) contemporanea sinergia strategica.
Un primo tentativo di gettar luce su questo tema, senza farsi deviare dalle
insidiose pressioni delle strumentalizzazioni politiche, si
è concretizzato in un Corso di formazione semestrale organizzato
dal GRIS (Gruppo di Ricerca ed Informazione Socio-Religiosa)
della Diocesi di Rimini nella primavera del 2004 sul tema “I
cattolici e i fondamentalismi”, con contributi di Maurizio
Blondet, Franco Cardini, don Antonio Contri, Enrico Fasana,
Mario Polia, Andrea Porcarelli, Natalino Valentini3;
partendo da un inquadramento generale della fisiologia
del fenomeno religioso, e quindi del rapporto fra tradizione
cristiana e altre religioni, per poi scendere nella patologia
contemporanea dell’esperienza religiosa, di cui il fondamentalismo
è un esempio tanto eclatante quanto diffuso, anche se ovviamente
non l’unico; infine, si è voluto precisare quale possa utilmente
essere la posizione del laico cattolico oggi, di fronte ad una
contrapposizione tra fondamentalismi in atto sempre più violentemente.
Un primo dato emerso dall’insieme delle Relazioni è che il Fondamentalismo
religioso da un lato possiede una carta d’identità ben determinata,
che ne individua le modalità di nascita con una notevole precisione
sia cronogeografica che culturale.
Nello stesso tempo, si è palesato che il Fondamentalismo, grazie ad un complesso
fenomeno di diffusione socio-culturale estesosi oramai su scala
planetaria, a partire dalla propria dimora originaria (gli Stati
Uniti d’America) si è diffuso in contesti culturali e spirituali
del tutto difformi da quelli primevi, generando anch’esso fenomeni
di inculturazione con caratteristiche originali, ma mantenendo
tuttavia caratteri simili e comparabili: un effetto forse imprevisto
della, certamente connesso alla globalizzazione.
Seguire con attenzione le modalità (spazio e tempo) di questo percorso di
diffusione compone un quadro che di per sé appare alquanto significativo,
in quanto tempi e luoghi di questo percorso si sovrappongono
con grande evidenza alle tappe della diffusione del pensiero
sociale e politico occidentale e moderno in contesti socio-culturali
originariamente ad esso del tutto estranei: medio- ed estremo
Oriente, Africa...
La diffusione del fondamentalismo religioso non appare quindi avvenuta a prescindere, ma al contrario sinergicamente all’”occidentalizzazione”
del mondo. E di ciò si dovrà tener debito conto, a pena di isolare
l’analisi di ogni singolo fenomeno di fondamentalismo in un’astrattezza
astorica, senz’altro funzionale ad ogni possibile strumentalizzazione
politica, ma del tutto incapace di comprendere le motivazioni
di questa patologia contemporanea della religiosità umana, e
pertanto di individuare gli opportuni percorsi preventivi e
terapeutici.
Di fatto, oggi il ventaglio dei fenomeni socio-religiosi che vengono comunque
accomunati sotto il termine “fondamentalismo” appare sempre
più ampio, abbracciando contesti storico-religiosi del tutto
differenti fra loro: Protestantesimo, Ebraismo, Islam, Induismo,
alcuni fra i quali appaiono giunti assai di recente nell’esclusivo
club fondamentalista, anche se facenti sfoggio dell’entusiasmo
del neofita, come è il caso del recentissimo ed assolutamente
paradossale – tenuto conto delle caratteristiche millenarie
di quella tradizione religiosa - fondamentalismo indù.
In effetti, una delle caratteristiche comuni della ricostruzione orwelliana
della realtà che appare accomunare tutti i fondamentalismi è
in primo luogo il dispregio della storicità. Ma si tratta di
un rischio che non appartiene solamente ad essi, e di nuovo
appare essere comune all’”occidente” in tutte le sue forme.
In effetti, perder di vista la storicità del fenomeno fondamentalista
consente da un lato di isolare il fenomeno, etichettandolo banalmente
come moralmente negativo, separandolo dal proprio contesto ed
avvolgendolo in un’aura di insensatezza, estraneità alla storia
e diabolicità che ripete, con la medesima malafede ed inutilità,
il tentativo fatto dopo la fine del secondo conflitto mondiale
di espungere l’esperienza e l’ideologia nazionalsocialista dal
panorama della modernità.
Questo processo di separazione dalla storia non appare di per sé casuale:
mira evidentemente a sollevare le ideologie della globalizzazione
dalle proprie responsabilità nella genesi e diffusione del fondamentalismo
religioso nel mondo presente; permette di isolare dal contesto
gli altri fondamentalismi e di demonizzarli oscurando il ruolo
e le responsabilità del proprio
(oramai l’abbiamo capito: “fondamentalisti” sono sempre e comunque
gli altri); oscura parimenti le ragioni profonde dell’esistenza di
entrambi, proteggendole e perpetrandole nel tempo; ne mimetizza
infine le complicità reciproche.
Il termine “fondamentalismo”, è sempre opportuno
rammentarlo, è nato alla fine dell'Ottocento nel contesto del
protestantesimo degli Stati Uniti d'America, designando una
corrente teologica avversa alle scuole “liberali” e “scientifiche”
in materia d'interpretazione della Bibbia, che sia in ambito
protestante che cattolico iniziavano ad utilizzare metodologie
di analisi ed esegesi del Testo sacro di tipo storico-critico,
fondate su scienze da un lato
di tipo filologico‑linguistico‑ storico‑archeologiche,
dall'altra sulle scienze umane come la sociologia, l’etnologia,
l’antropologia culturale, la psicologia analitica. Al termine della conferenza dei teologi “conservatori”
tenutasi nel 1895 a Niagara Falls, questi sostennero che «sottoporre la Sacra Scrittura ai medesimi processi
metodologico-critici usati per gli altri testi e gli altri oggetti
storici fosse inutile sotto il profilo concettuale (essendo
dotata la Sacra Scrittura di caratteri suoi propri, che trascendevano
l'umana razionale comprensione) ed empio sotto quello teologico
in quanto rischiava di attaccare, contestare, fraintendere o
inquinare le Verità appunto fondamentali contenutevi»4.
Secondo questi ambienti ciò era essenziale al fine di salvaguardare
i fondamenti della fede cristiana evangelica,
da cui il termine “fondamentalismo”, che si diffuse negli USA
dopo il 1909, grazie ad una fortunata serie di opuscoli popolari
di divulgazione religiosa, e da quella terra iniziò il proprio
lungo cammino.
E’ interessante constatare come questa attribuzione
di “incomprensibilità” sul piano razionale della Bibbia (sostenuta
sulla base della sua natura rivelata) non fosse affatto ritenuta
in contraddizione col principio cardine del protestantesimo,
maxime quello calvinista-puritano,
del cosiddetto “libero esame” della Scrittura stessa, secondo
il quale nessuna autorità terrena può sostituirsi al singolo
fedele (ed alla sua comunità di pari) nel suo rapporto diretto
con Dio attraverso la Scrittura. L’apparente contraddizione
si scioglie in realtà sul piano antropologico: ammettere un’analisi
“scientifica” della Bibbia comportava la riscoperta di un certo
tasso di “oggettività”, per quanto relativa e mondana; al contrario:
proprio perché escludeva rigorosamente il valore dell’analisi
scientifica e razionale del Testo sacro, la difesa fondamentalista
lasciava campo libero a quella pletora di interpretazioni individuali,
“ispirate” e misticheggianti, la cui profusione incontrollata
è base della polverizzazione della parte più “calda” del protestantesimo
statunitense contemporaneo (quella della Moral
majority e dei cosiddetti born
again, i “rinati”, cui bisogna ricordare che appartiene
anche l’attuale Presidente degli Stati Uniti George Bush jr.),
e della sua natura non super-razionale
ed universale, ma semplicemente e coscientemente individuale
ed irrazionale.
Il fondamentalismo nasce quindi in ambito protestante statunitense, come reazione all’impatto delle scienze umane e storiche contemporanee con quel mondo culturale: si tratta evidentemente di una reazione che in termini psicanalitici si definirebbe di “difesa”. Non a caso la succinta analisi dei punti essenziali dell’ideologia fondamentalista statunitense fatta da Franco Cardini5. vede in modo significativo, accanto ad affermazioni strettamente inerenti l’esegesi della Bibbia (i principi dell’inerranza della Sacra Scrittura, dell’astoricità della Verità divina ivi rivelata, e della superiorità della Legge di Dio contenuta nella Bibbia stessa rispetto ad ogni Legge terrena), altri “punti forti” che scaturiscono dalle radici stesse dell’esperienza puritana, segnando profondamente il genoma della cultura religiosa e politica degli Stati Uniti d’America e l’identità stessa delle comunità che dal XVIII secolo si radunano sulle coste del Nuovo Mondo alla ricerca –non dimentichiamolo - di una “nuova terra” in cui edificare un “nuovo Israele” contrapposto ai compromessi mondani della “vecchia Europa”.
Ed in questo
senso, ci accontentiamo di notarlo di sfuggita, giustamente
si è notato come la critica cattolica novecentesca al modernismo
teologico, al di là di superficiali accostamenti, non sia assolutamente
comparabile col fondamentalismo protestante, nemmeno nelle sue
espressioni più rigorose ed estreme, come il cosiddetto “tradizionalismo
cattolico”6.
L’aspetto “identitario” della difesa fondamentalista statunitense si accentra attorno ad alcuni punti essenziali:
a) la ricerca di un'identità forte dei gruppi fondamentalisti;
b) la “mobilitazione totale” dei militanti;
c) la sindrome del “nemico metafisico”.
Il primo punto ritorna alla pretesa degli ambienti fondamentalismi di rappresentare un “ritorno alle radici”, alla “purezza originaria” dell’esperienza non solo protestante statunitense, ma tout court cristiana (il che rende ragione del distacco fra le frange “calde” del protestantesimo statunitense e molte fra le grandi confessioni riformate, distacco che non è solo dottrinale ma anche organizzativo e politico, concretizzandosi nell’auto-esclusione della maggior parte di questi ambienti fondamentalisti dall’ambito della “Conferenze Ecumenica delle Chiese” – KEK - impegnata nel dialogo ecumenico). Proprio perché pretende di incarnare la Verità, il fondamentalista non può infatti essere interessato ad alcun tipo di “dialogo ecumenico” o, ancor più nettamente, “interreligioso”.
Il secondo punto connota in modo netto la differenza (sia sul piano culturale che sociale) fra i gruppi fondamentalisti e gli ambienti genericamente “conservatori” o “tradizionalisti”: si tratta di una caratteristica comune e fondamentale delle grandi ideologie della modernità, dal giacobinismo al nazionalsocialismo al comunismo, per le quali la persona esiste se ed in quanto si rivela utile ed adeguata alle necessità di rifondazione del reale dettate dall’ideologia; il fondamentalismo protestante sottolinea in questo modo le sue radici profonde, ponendosi al fianco delle altre ideologie pseudoreligiose contemporanee.
Il terzo punto appare una conseguenza necessitata della secolarizzazione che permea le radici stesse dei fondamentalismi contemporanei, un chiaro esempio di spostamento su un piano immanente e mondano della metafisica della storia cristiana (con particolare riguardo all’apocalittica) e alla consequenziale identificazione di sé stessi con il Bene e “le truppe di Dio”.
Ben si comprende come la retorica di questa rappresentazione non si reggerebbe se non attraverso un processo simmetrico: la designazione –parimenti secolare e mondana - del campo del Male, e delle “truppe di Satana”. Questo meccanismo proiettivo rende ragione di una caratteristica del pensiero politico statunitense che ha colpito numerosi osservatori: la sua necessità di trovare sempre un “asse del male” con cui legittimare la propria missione salvifica secolarizzata: nei primi anni ’40 il nazismo, poi il comunismo, dopo il 1990 l’Islam7.
Non sorprenderà la constatazione che tutti questi tre punti appaiono tipici di una temperie culturale e spirituale del tutto moderna, evidenziando molteplici punti di contatto con l’elaborazione culturale e politica del romanticismo europeo, particolarmente di quella parte dell’Europa di appartenenza religiosa riformata: radici comuni che conducono ad evoluzioni parallele di un generale atteggiamento nei confronti del mondo, di una specifica weltanschauung..
Il rifiuto della storicità dell’esperienza religiosa e la confusione fra piano storico e piano provvidenziale; la conseguente identificazione di sé con il Bene e dell’altro con il Male conduce ad un altro scivolamento dalle conseguenze drammatiche: una volta auto-arruolatisi nei ranghi dei Combattenti di Dio è possibile arrogare a sé stessi, in quanto soggetto storico e politico, i diritti sull’universo tipici del Dio che ritorna alla fine dei tempi per la Restaurazione finale: questi aspetti generati dalla secolarizzazione del protestantesimo statunitense si svelano da un lato essere un’applicazione particolare di un più generale meccanismo di secolarizzazione del sacro e di simmetrica divinizzazione dello Stato tipici del romanticismo occidentale del XIX secolo, e d’altro canto ritornano con una insistenza addirittura ossessiva in tutte le esperienze fondamentaliste contemporanee, svelandone in tal modo una radice culturale essenziale, al di là dell’apparente eterogeneità della tradizione religiosa di riferimento8.
Il fondamentalismo, in quanto creazione assolutamente moderna, si svela essere assai più vicino, ideologicamente e nella sua “visione del mondo” agli altri fondamentalismi piuttosto che alla tradizione religiosa su cui si innesta e in cui pretende di rappresentare un “ritorno alle origini”.
Un immediato paragone con un'altra forma di fondamentalismo contemporaneo sarà utile ad illuminare questa simmetria: il fondamentalismo islamico.
«Quello che oggi si definisce “fondamentalismo islamico”, e che meglio forse sarebbe definibile come “radicalismo”, è l'insieme dei molti movimenti - peraltro differenti tra loro, e spesso reciprocamente ostili - che all'interno dell'umma musulmana a partire dagli anni ‘20 del 900, anche in reazione alla decadenza dei grandi imperi islamici (il turco, l'indiano moghul, il persiano) sotto la pressione del colonialismo occidentale sono sorti per riaffermare la necessità di ricondurre l'ordine civile e sociale dei paesi islamici all'originario rispetto dei valori delle “tre D”: Din (“fede”), Dunya (“società”), Dawla (“politica”), tre dimensioni sentite come complementari e coerenti e che storicamente avrebbero agito nella storia al tempo dei Profeta e dei suoi primi successori, i califfi detti “i ben guidati”»9..
Fin dall’esperienza primeva degli ormai celeberrimi “Fratelli Mussulmani”
egiziani, il fondamentalismo islamico appare anch’esso chiaramente
ispirato ad una “difesa” nei confronti della modernizzazione
colonialista che giunge a produrre effetti paradossali, fino
ad adottare caratteristici aspetti della modernità come armi
contro la modernità stessa. Franco Cardini elenca in questo
modo i càrdini ideologici del fondamentalismo islamico:
«- la riaffermazione
del tawid (il monoteismo
rigoroso), l'idea che i luoghi nei quali la presenza degli infedeli
sia troppo forte vadano sgombrati dai credenti mediante l'abbandono
(“egira”, hijra) o riconquistati mediante uno sforzo sulla
via di Dio, jihad).;
- la tesi che si debba
conferire nuova vita alla fede pura degli antichi (salaf);
- la fiducia
nel prossimo arrivo di un rinnovatore della tradizione che fonderà
il “regno dei giusti” prima del Giudizio e che sarà “l’Atteso”,
il Mahdi.»10.
Da parte nostra aggiungiamo un connotato solo apparentemente
secondario: da un lato nella predicazione politica del fondamentalismo
più recente, ad esempio in Osama bin Laden, la tesi secondo
cui si debba completamente purificare la “terra sacra” dell’Islam
(identificata com’è noto nell’Arabia Saudita) dalla presenza
degli “infedeli” ha acquistato una rilevanza sempre maggiore;
nello stesso tempo è evidente l’identificazione di un “nemico
metafisico” connotato dalla definizione “crociati ed ebrei”,
che riunisce in un solo contenitore dispregiativo gli israeliti
a tutti i cristiani, nella più completa indistinzione fra cattolici,
ortodossi e protestanti, storiche Chiese orientali presenti
da secoli nel Vicino e Medio Oriente e born
again statunitensi.
Anche qui notiamo, accanto alla più radicale incomprensione
della concretezza storica dei rapporti fra confessioni religiose
abramitiche nell’area medio-orientale, una commistione di istanze
puramente religiose e meramente politiche, frutto ancora una
volta di una radicale secolarizzazione di ciò che massimamente
si presenta, nella tradizione delle tre religioni uscite dal
comune ceppo abramitico, come trascendente: la salvazione cosmica
alla fine dei Tempi.
Frutto palese di siffatta commistione appaiono
essere:
a)
la pretesa di ritornare
all’indietro nel fiume della storia fino ad una ”purezza originaria”
della fede islamica;
b)
l’individuazione di una
“terra santa” in cui solo il “popolo dei salvati” può vivere
(e non sarà inutile ricordare come mai nella storia l’Islam
abbia pensato una siffatta radicale “pulizia etnico-religiosa”),
e la cui purezza (sia del popolo che della terra) è segno e
misura del successo nella lotta contro il male;
c)
infine l’attesa di un Restauratore
mondano che giunga a fondare un regno di giustizia nell’al di qua, per mezzo della liberazione
della “terra santa” da tutti gli esponenti della neo-stirpe
dei “crociati ed ebrei”.
La «…rivendicazione del valore assoluto del Libro (nel caso islamico, il Corano), esistenza di un forte mito di fondazione (la “società perfetta” del primo Islam, che ha qualche somiglianza con l'idea cristiana della “Chiesa delle origini”), opposizione rispetto alle tendenze religioso-liberali sentite come varco aperto al progresso nel mondo d'un modello di società che possa “far a meno di Dio”, senso di forte appartenenza identitaria degli adepti dei vari gruppi, sono i connotati che hanno indotto, per analogia con il movimento statunitense inaugurato dalla conferenza di Niagara Falls dei 1895, a parlare di un “fondamentalismo islamico”»11.
Dobbiamo al prof. Enrico Fasana l’aver centrato in più occasioni l’attenzione su di un altro aspetto essenziale del fondamentalismo islamico contemporaneo, che lo pone da un lato in stretto parallelismo con il fondamentalismo protestante cristiano, e nel contempo in drastica rotta di collisione con l’Islam tradizionale: l’odio verso il culto dei Santi.
Ovunque il fondamentalismo islamico si sia affermato politicamente, (dalla Cecenia all’Afghanistan) ha assunto come proprio nemico proprio quella formulazione della tradizione islamica accentrata attorno all’esperienza delle Confraternite (tariqah) fondate dai Santi islamici. In modo particolare, all’indomani dell’invasione dei Taliban dell’Afghanistan, parallelamente alla conquista del territorio afgano strappato alle milizie islamiche locali, successivamente riunitesi attorno alla nota figura del Comandante Massud, le milizie fondamentaliste, nella più assoluta indifferenza dei media internazionali, iniziarono un’opera di sistematica distruzione di tutti i Santuari islamici afgani, che normalmente sorgono accentrati attorno alla tomba di un Santo, ovviamente in nome del ritorno alla purezza della fede islamica “delle origini”: l’eco della distruzione delle antiche statue dei Buddha di Bamian è in effetti stato assai diverso, come se rispetto ad esse la distruzione delle secolari vestigia dell’Islam afgano non valesse la stessa attenzione, né la stessa corale indignazione planetaria12.
Il medesimo parallelo valoriale sommariamente accennato
riguardo ci sembra parimenti utile per illuminare più in profondità
il meno studiato, ma altrettanto indicativo della temperie spirituale
e culturale di un popolo di antichissima tradizione nel suo
incontro-scontro con la modernità: il fondamentalismo ebraico.
Dopo l’assassinio del premier israeliano Itzkhach Rabin, nel novembre 1995 da parte di Ygal
Amir, un membro del gruppo nazional-religioso Kach, la presenza e la forza di un fondamentalismo ebraico all’interno
stesso dello Stato d’Israele è stata evidente anche ai commentatori
meno avveduti. In effetti, già nel 1994 un altro adepto del
medesimo gruppo, Baruch Goldstein, si era reso colpevole della
strage alla Moschea di Hebron. Ma non si tratta di un gruppo
isolato: basterà ricordare le sigle del movimento Kahande Hai fondato nel 1991 da fedeli dal rabbino Benjamin Kahane, e quella
della Yeshiva (Scuola
rabbinica) Ateret Cohanim,
da anni al centro dei reiterati tentativi di demolire le Moschee
di Gerusalemme per ricostruire il Tempio ebraico13.
Con grande attenzione e costante riferimento a testimonianze
quasi completamente ignorate, quantomeno in Europa, è stato
Maurizio Blondet ad aprire una nuova finestra sull’ideologia
religiosa del fondamentalismo ebraico, e nel contempo sugli
anticorpi spirituali che la parte migliore della tradizione
religiosa ebraica secerne, sovente del tutto ignorata dai media
e dagli studiosi occidentali14.
Lo studio del fondamentalismo ebraico, al pari
di quello islamico, ci riporta ad una prospettiva del tutto
moderna all’interno del plurimillenario
percorso di questo popolo. Vari sono stati gli osservatori che
hanno notato quella che appare una plateale contraddizione,
ossia «Il fatto che il fondamentalismo ebraico si sia collegato così strettamente
alla causa nazionalista-sionista, notoriamente “laica” e come
tale vista con sospetto dai gruppi ebraici religiosi più severi,
è una prova ulteriore del carattere non religioso, bensì piuttosto
politico delle tendenze fondamentaliste in quanto tali»15.
Il nodo del rapporto fra il fondamentalismo ebraico
contemporaneo e il sionismo è in effetti complesso, come complesse
sono le radici culturali del movimento sionista stesso, frutto
originario – lo ricordiamo – del “romanticismo politico” dell’Europa
ottocentesca, persa dietro utopie di restaurazione di unità
“primordiali” di sangue e suolo i cui frutti matureranno nei
primi decenni del novecento16; in questa grande complessità,
la pretesa dei fondamentalismi ebraici di incarnare l’autentico
sionismo, ossia il pieno e perpetuo ritorno del Popolo ebraico
alla Terra di Israele, non è priva né di una apparente attendibilità
né di estimatori, sia in patria che altrove.
Ovviamente è a scopi esplicativi (e non per negare
la specificità di ogni fenomeno fondamentalista, compreso quello
ebraico, riconducendoli in modo deterministico ed evoluzionistico
ad unum)) che riprendiamo lo schema già
utilizzato in ambito islamico. Il fondamentalismo ebraico, anch’esso,
appare connotato dalle seguenti caratteristiche:
a)
la pretesa di risalire
all’indietro nel fiume della storia fino al recupero di una
”purezza originaria” della fede ebraica: ne sono un esempio
da un lato le velleità di ricostruzione del Sinedrio come suprema
autorità religiosa e politica dell’Ebraismo, e nel contempo
i tentativi di ricostruzione del Tempio di Gerusalemme “dove
era, come era” prima della sua distruzione, del Culto che in
esso era praticato prima della distruzione, fino a progettare
una rivitalizzazione della catena genetica del sacerdozio ebraico
antico17;
b)
l’individuazione, per mezzo
di una lettura letteralista della Bibbia, dell’esistenza e persino
dei confini di un Eretz
Israel, una “Grande Israele” dal Nilo all’Eufrate, che riporta
alla memoria i deliri nazionalistici di molte altri contesti
euro-occidentali e all’interno del quale solo il “popolo dei
salvati” può vivere, la cui unità e purezza (sia del popolo
che della terra, quindi con connotati assieme etnici e religiosi)
è segno e misura dell’avvicinarsi concreto, in
questo mondo, dell’avvento dei tempi messianici;
c)
infine, l’identificazione
del Messia (figura comune, sia pure con connotati non esattamente
sovrapponibili, all’insieme della tradizione ebraica, cristiana
e musulmana) con lo stesso popolo ebraico, il cui compito diviene
quindi quello di giungere a fondare il Regno di Giustizia nell’al
di qua, godendo implicitamente dei diritti messianici sull’universo.
Trae quindi una sua sinistra concretezza il rinnovato utilizzo
di storici slogan quali “Dio
è con noi” da parte degli ambienti più militanti del fondamentalismo
ebraico, evidentemente ignari della tremenda ironia storica
di questa appropriazione18.
Ovviamente la parte più avvertita della cultura
e della civiltà ebraica ed israeliana (ché le due cose non coincidono
perfettamente, come molti continuano ad obliare) ha da tempo
colto la pericolosità di queste degenerazioni fondamentaliste,
ed è interessante constatare che questa attenzione critica unisce
quella che sui media si è usi chiamare la “sinistra” israeliana con gli ambienti
più tradizionali in senso spirituale dell’Ebraismo. Ed è parimenti
sintomatico che queste voci critiche, che si uniscono alle altre
che sia in ambito cristiano riformato che islamico si levano
da anni per denunciare e combattere le rispettive derive fondamentaliste,
a differenza di quanto si potrebbe credere sono assai poco note,
per nulla valorizzate dai grandi canali di comunicazione di
massa, quasi rimosse per la loro oggettiva irriducibilità alla
rappresentazione semplificata della realtà che i media non posso evidentemente fare a meno di fabbricare e di imporre.
Non avendo alcuna tendenza complottista, al massimo possiamo
cogliere in ciò solamente un residuo di malafede ideologica,
per la quale tutti i fondamentalismi sono criticabili, ma alcuni
sono meno fondamentalisti di altri, mentre le graticole dell’esecrazione
planetaria si accendono e si spengono con un’interessante asimmetria.
Due brevi citazioni, fra tutte quelle possibili,
possono introdurre il lettore europeo ad una miglior valutazione
del problema del fondamentalismo ebraico e delle sue conseguenze
all’interno della cultura ebraica e della società israeliana:
«Da Tel Aviv
lo scrittore e pacifista Uri Avneri si inquieta della "destra
religiosa" israeliana, la quale ha cominciato a definire
gli ebrei secolari "amaleciti": popolo che Jahveh
avrebbe ordinato di "sradicare". «È la base teologica
per la guerra civile», protesta Avneri»19.
In una drammatica missiva all’odierno Presidente
degli Stati Uniti, il rabbino Russel Waxman, esponente di primo
piano di quella corrente minoritaria ma esemplare del mondo
religioso ebraico che dal XIX secolo si è opposta al progetto
sionista prima, ad ogni forma di fondamentalismo oggi, scrive:
«Fin dalla distruzione
del Tempio e dall'esilio del popolo ebraico durato circa 2000
anni, siamo stati obbligati ad essere scrupolosamente leali
verso i paesi nei quali risiediamo, senza mai cercare di stabilire
delle sovranità indipendenti, né in Terra Santa né altrove.
Uno dei grandi profeti biblici, Geremia, nel capitolo 29 del
suo libro, proclama il messaggio di Dio agli esiliati; il verso
sette dice: "Cerca il benessere della città in cui
ti ho esiliato, e prega per esso l'Altissimo, poiché attraverso
il suo benessere anche tu avrai benessere".
Questa è la pietra d'angolo della moralità ebraica dalla storia
ad oggi.
Il movimento sionista
rigetta tutti i principi fondamentali della Torah e dei rabbini.
Gli ebrei non hanno bisogno di uno stato per conto proprio.
La stessa creazione di uno stato "ebraico" è una grave
violazione della legge e delle tradizioni ebraiche.
Dunque esso non rappresenta
in alcun modo il popolo ebraico e non ha il diritto di parlare
a suo nome. Le sue parole, dichiarazioni ed azioni non sono
in alcun modo rappresentative del popolo ebraico. Noi deploriamo
gli atti e la politica di violenza portati avanti da coloro
che - abusando del nome di Israele - hanno sostituito gli insegnamenti
della Sacra Torah con un ideale di nazionalismo.
Per questo, signor
Presidente, è massimamente urgente che lo stato d'Israele non
sia definito stato ebraico, ma stato sionista. Il fondamento
della sua esistenza non è il Giudaismo, ma l'ideologia sionista.
Siamo estremamente preoccupati del fatto che definirlo "stato
ebraico" metta in pericolo il benessere degli ebrei in
tutto il mondo, ponendo una connessione tra gli ebrei e il Giudaismo
e le terribili azioni commesse dallo stato sionista. Lo stato
sionista ed i suoi sostenitori in tutto il mondo cercano di
prendere tutte le misure possibili, incluse quelle che provocano
l'odio per gli ebrei a causa delle politiche israeliane, atte
a convincere gli ebrei a trasferirsi, dai loro paesi nativi,
nello stato d'Israele. Invero, l'odio per gli ebrei è la linfa
vitale e l'ossigeno del movimento sionista e del loro stato,
che sono in totale contrasto con il giudaismo.
Sentiamo anche molto dolore per la mal riposta simpatia dei cristiani evangelisti verso il sionismo. Se essi conoscessero la verità sul sionismo, non potrebbero supportarlo.»20.
Non stupirà infine che lo spettro semantico del
termine “fondamentalismo” abbia condotto a qualificare come
tali anche molti altri fenomeni di radicalismo religioso presenti
nell'induismo e nel sikhismo.
Il percorso storico del fondamentalismo induista,
che si restringe in un lasso di tempo ancora più schiacciato
sulla contemporaneità rispetto ai “fratelli maggiori”, ripete
quasi pedissequamente tappe e modi già più volte sottolineati
in contesti religiosi diversi: la stessa invenzione di un’ “identità
indù” rappresenta, per chi conosca l’assoluta eterogeneità etnica
e storica dell’immenso sub-continente indiano, una innovazione
inconcepibile ancora al tempo della grande esperienza del “Partito
del Congresso” del Mahatma Gandhi e di Chandra Bose. Come ben
sanno gli storici delle religioni, lo stesso termine “induismo”
è invenzione occidentale; un indiano fedele alla propria tradizione
religiosa non definirà mai sé stesso “induista”, ma definirà
in termini molto più precisi e specifici il proprio dharma
nel contesto della propria appartenenza castale e geografica;
inoltre, benché la suddivisione in Caste separi la società indiana
(al di là delle ipocrisie della vigente Costituzione, che “abolisce”
le Caste con la stessa vacua sicumera di chi pretende di cancellare
realtà storiche millenarie con una legge approvata per alzata
di mano) in livelli ben distinti fra di loro, la stessa concezione
di una “stirpe” indù, omogenea e quindi assumibile come un patrimonio
da difendere, rappresenta un paradosso storico e nello stesso
tempo un impianto concettuale nella cultura indiana tipicamente
occidentale e moderno, frutto avvelenato del colonialismo culturale
occidentale prima, del neocolonialismo delle ideologie novecentesche
poi.
La cronaca degli ultimi cinque anni ha aperto gli
occhi sull’esistenza e sul modus
operandi delle organizzazioni fondamentaliste indù, la più
nota delle quali è uno dei maggiori partiti politici indiani
contemporanei, il Bharatiya Janata Party, denominazione che
viene usualmente tradotta con “Partito nazionalista indù”, attorno
al quale sono nate una costellazione di organizzazioni paramilitari
come il Rashtriya Swayamsevak Singh, che si è ripetutamente
distinta per le aggressioni a sacerdoti e seminaristi cristiani,
senza alcuna distinzione fra chiese cristiane tradizionali indiane
(lì presenti da secoli) e le confessioni protestanti d’importazione
statunitense.
Ancora una volta, il fondamentalismo indù presume:
a)
di rappresentare null’altro
di un ritorno alla ”purezza originaria” dell’induismo, per mezzo
di un’inedita “mobilitazione delle masse” indù contro ogni fede
religiosa diversa, dall’Islam al Cristianesimo in tutte le sue
forme (ed alcune, sarà bene rammentarlo, sono presenti nel sub-continente
indiano dall’alto Medioevo senza che ciò abbia mai causato problemi
di convivenza fino agli ultimissimi anni del secolo appena trascorso);
b)
di scolpire i confini dell’India
(da cui i conflitti endemici in terre che da secoli vedono la
presenza di comunità miste) come delimitazione sacrale di una
“terra pura” in cui solo il “popolo dei puri arya”
di religione indù possa pretendere di vivere;
c)
infine, secolarizzando
le tradizionali attese del Restauratore finale proprie della
tradizione indo-buddhista (accentrate attorno alla figura del
Restauratore alla fine dei Tempi, il Kalki-Avatara)
ritiene possibile fare dei movimenti politici “nazionalisti
indù” l’esatto equivalente di un Restauratore mondano che giunga
a rifondare una nuova Età aurea nell’al di qua, per mezzo della liberazione
della “terra pura dell’India” da tutti i musulmani, i cristiani
e, in taluni casi, anche i buddhisti.
Proviamo ora a trarre qualche iniziale sintesi. Da questo veloce sguardo
d’insieme sulle fenomenologia, oltre che sull’ideologia, dei
movimenti fondamentalismi contemporanei nel loro insieme, appaiono
con stimolante chiarezza alcune costanti:
In effetti, questa costruzione di una parodia anticristica della religione
(esattamente in linea con quanto Vladimir Solov’ev colse nella
sua celebre ricostruzione letteraria dei tempi dell’Anticristo23)
costituisce un esito obbligato dello sforzo fondamentalista
di “rigenerazione” del mondo. La stessa assunzione degli assunti
pseudostorici assume quindi senso se, e nella misura in cui,
questi divengono il fondamento di una politica di potenza: essi
si dimostrano tali se, e nella misura in cui, sia possibile
imporli nella realtà, quasi necessariamente con la forza, in
virtù della naturale resistenza
delle identità concrete ai tentativi ideologici di “rigenerazione
della realtà”. In questa dinamica obbligata, che abbiamo visto
ripetersi numerose volte all’interno dei diversi filoni fondaentalisti,
diviene palese la natura profondamente giacobina dei fondamentalismi, residuali
“nazionalizzazioni delle masse” per le quali se la realtà smentisce
i propri assiomi, tanto peggio per la realtà24. E
come ogni altra sindrome paranoide, anche queste vengono radicalmente
demistificate dichiarando che il re è nudo, e che questa neostoria,
nel migliore dei casi, rappresenta un indebito sconfinamento
nella narrativa fantasy.
Esiste in ciò una profonda solidarietà fra i diversi fondamentalismi, a
partire da quello protestante, ebraico ed islamico; ed a questo
schema facilmente si potrebbe avvicinare l’ancor più recente
fondamentalismo indù. Ogni fondamentalismo non riesce a vincere
la tentazione di sacralizzare ciò che è mondano, pervertendo
di passaggio la propria religione in idolatria: il popolo, sintesi di credenze
ed etnia. Ed in ciò dimostra la propria radice culturale tipicamente
occidentale e tardoromantica25.
Terapia antifondamentalista:
per un ritorno al reale.
Chi scrive, da cattolico romano, è fermamente convinto che una cosciente
cattolicità costituisca la miglior prevenzione
contro ogni scivolamento paranoide fondamentalista, prima di
tutto in ambito cristiano, ma non solo (e le posizioni della
Chiesa Cattolica attorno all’evoluzione della politica mondiale
degli ultimi due anni, a partire dalla cruciale questione della
Terrasanta, ne sono un equilibrato esempio, a dispetto della
chiassosa quanto ripetitiva pattuglia dei “cattolici” neocon d’adozione), e nello stesso tempo
come il metodo comune di deformazione del reale utilizzato dagli
ideologismi sette-ottocenteschi ieri come dai fondamentalismi
oggi, è la menzogna per omissione, la sottrazione
dalla complessità del mosaico del reale di tutte le tessere
dal colore differente da quello desiderato26.
Ecco perché la più radicale terapia contro ogni ideologismo moderno, ed
anche contro ogni fondamentalismo, permane la concretezza della
storia e della storicità del reale. Ed il ritorno della cultura
europea al rispetto della sua organicità.
Ritorno al reale significa in primo luogo demistificazione della
neo-storia con cui
tutti i fondamentalismi costruiscono quella parodia secolarizzata
di Rivelazione che è la propria visione del mondo.
Si pensi all’utilizzo simmetrico del
mito della Crociata come proto-“scontro di civiltà”: utilizzo
simmetrico in quanto esso assume un valore positivo
per il fondamentalismo occidentalista, e negativo
per quello islamico; entrambi, tuttavia, condividendo la medesima
definizione falsata del fatto storico, frutto di una simmetrica
e convergente deformazione della realtà dei fatti storici della
Crociata (ché per gli ideologismi post-illuministici, di cui
il fondamentalismo si presenta in ogni sua forma sempre più
come il conato terminale, la realtà in fondo in sé non esiste, sostituita dalla visione del
Vate - laico o religioso - di turno)27.
Si pensi all’invenzione della categoria unitaria dell’ “Occidente”, che
non solo nega i complessi
percorsi di differenziazione che a partire dallo Scisma protestante
hanno lacerato l’unità della Cristianità in una serie di frammenti
sempre più eccentrici, affermanti la propria esistenza esclusivamente
sulla base della negazione della storicità e della legittimità
della Chiesa cattolica, ma che dopo due secoli di laicismo si
riscopre bruscamente come “cristiano” se non proprio addirittura
come “cattolico” senza
cambiare nulla dei fondamenti sociali, culturali e spirituali
della propria bisecolare apostasia, semplicemente per consentire
l’arruolamento forzoso dei cattolici nei ranghi del “buoni”
collaboratori del fondamentalismo protestante28.
Si pensi soprattutto alla vulgata
martellata da occidentalisti laici e “cattolici”, che descrive
gli Stati Uniti d’America non come una potenza che ha perseguito
e persegue una propria politica di potenza planetaria dotata
di caratteristiche del tutto peculiari sia sul piano religioso
che economico e sociale (cosa perfettamente legittima, ovviamente,
e che tuttavia sottolinea come l’Europa possa e debba fare legittimamente
altrettanto sulla base dei propri
interessi concreti, sempre più divergenti da quelli degli USA),
ma come una “Grande Potenza Morale”, incarnazione del bene nella storia: «Gli Stati Uniti
sono divenuti grandi, ricchi e potenti e oggi dominano il mondo
perché sono stati impegnati in missioni di difesa della libertà
e della democrazia contro i totalitarismi nazista, comunista
e fondamentalista islamico»29
Si pensi alla generale esecrazione del terrorismo di matrice islamica, che si accompagna puntualmente alla rimozione di ogni seria meditazione storica su come e quando il terrorismo islamico sia nato, e da chi il fondamentalismo islamico l’abbia appreso come metodo di lotta politica e costruzione di entità statuali inedite prima di tutto all’interno della tradizione islamica stessa30.
Il fondamentalismo religioso appare quindi come l’ideologia residuale della modernità, segno autunnale di un’epoca che continua il suo rapido cammino vespertino, malgrado gli improvvidi entusiasmi di quella parte della cultura europea che, inesausta, continua a cercare di correre in aiuto del vincitore del momento31.
Adolfo Morganti
Note
17.
Cfr. M. Blondet,I Fanatici…, op. cit.; per il tentativo
da parte di «rabbini ortodossi
e nazionalisti» di ricostruzione del Sinedrio, cfr. G. Motta,
“Sharon “investe” sui fedelissimi”, in Avvenire, 14/10/2004, p. 13. In questa
luce assume un significato meno folklorico la recente notizia
della “maledizione di morte”, in ebraico Pulsa
dinura con cui un numero non precisati di rabbini fondamentalismi
ha risposto alle intenzioni del premier israeliano Ariel Sharon
di abbandonare la Striscia di Gaza (cfr. M. Blondet, “Contro
Sharon fattura di morte dei rabbini estremisti”, www.effedieffe.it, 15/02/2005).
18.
«Dio è con noi» risulta infatti essere oggi una delle parole d’ordine
della resistenza dei movimenti fondamentalismi attivi fra i
coloni israeliani nella striscia di Gaza contro il piano di
sgombero forzato di quell’area che l’attuale Governo di unità
nazionale israeliano sta cercando di realizzare: cfr. A. Baquis,
“Sharon: ci annetteremo
le colonie cisgiordane”, in La
Stampa, 16/02/2005, p. 6.
19.
M. Blondet, La terra promessa, il sionismo e le derive
del fondamentalismo, in “Avvenire”, 30/09/04.