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Al di là della tempesta
I fondamentalismi, l’Europa, il Cattolicesimo. Adolfo Morganti

Scriviamo queste righe all’indomani delle prime votazioni “libere” in Iraq, mentre si sta esaurendo la marea di retorica massmediale attorno ai poteri taumaturgici di una “democrazia” che non appare andare al di là di un metodo e di una procedura di voto autorevolmente importati in quella terra dagli Stati Uniti d’America, ed emergono cautamente i primi brandelli di verità attorno alla differenza che immancabilmente passa fra una legittimità elettorale formale ed una partecipazione reale: uno tsunami di parole più volte ripetutosi negli ultimi anni e che proprio in queste ultime ore sta tradendo segni di stanchezza, e la cui obiettiva veridicità andrà ovviamente verificata nel tempo e al di fuori della pressione dell’informazione a senso unico (egemonizzata da alcuni dei fondamentalismi in causa), pressione che in Europa è riuscita di fatto ad oscurare quasi completamente ogni altra rappresentazione di una realtà che di per sé appare cocciutamente ben più ambigua.

Nello stesso tempo, dopo l’incancrenirsi delle conseguenze dell’occupazione militare a guida statunitense del territorio Iracheno e la polemica sulle torture organizzate all’interno delle carceri anglo-americane nello stesso paese (polemiche affatto sopite dalle recite giudiziarie che hanno condotto all’”esemplare” condanna di qualche aguzzino semianalfabeta, mentre si inizia timidamente ad aprire il capitolo del brave new world di Guantanamo, e crediamo che le vere sorprese giungeranno dall’apertura di questo dossier), se la pressione massmediale del fondamentalismo protestante statunitense e dei suoi alleati “occidentali” appare impegnato nel tentativo di mimetizzare per mezzo dei dati elettorali iracheni sia le crescenti difficoltà politiche e strategiche sul campo che quelle causate dalla demistificazione della cruda realtà dell’invasione e dell’occupazione militare del territorio iracheno dopo e indipendentemente dalla cacciata del “dittatore” Saddam Hussein, la posizione dell’Europa diviene cruciale, e la sua debolezza oscillante sempre più evidente e, nel contempo, intollerabile.

Si avverte cioè sempre di più un “vuoto d’Europa”, e di fronte agli scontri fra fondamentalismi che hanno segnato sanguinosamente gli inizi del terzo millennio dell’era cristiana, pesa la carenza quasi assoluta di una politica estera europea unitaria (e quindi autorevole) ed autonoma, che consenta grazie alla sua coralità anche ai governi nazionali più malaccorti di smarcarsi dal vicolo cieco in cui un’adesione “cieca, pronta e assoluta” ai dogmi culturali e politici di un occidentalismo che si rivela sempre più la maschera di un fondamentalismo antieuropeo e destabilizzatore; un occidentalismo venduto sapientemente, con una brillante campagna di marketing al mercato del consenso internazionale, ma che non ha nemmeno portato agli Stati che più entusiasticamente ne sono stati i sottoscrittori (e l’Italia per una volta va collocata in pole position di questa graduatoria) i benefici economici a suo tempo autorevolmente promessi per motivarne la partecipazione allo sforzo bellico1.

Una politica estera e di difesa europea comune, benché costituisca un progetto che impiegherà ancora degli anni ad essere pienamente operativo, sarà inoltre l’unica a poter consentire all’Europa di recuperare quella funzione di ponte verso il Mediterraneo e di promotore di educazione e cooperazione con i popoli del Vicino e Medio Oriente che i fatti hanno dimostrato non poter essere sostituita né dalle cannoniere volanti né dalla massiccia importazione nel Medio Oriente di apparati repressivi e polizieschi di stampo sudamericano2, che si sono dimostrati i migliori alleati (sia sul piano strategico che propagandistico) di tutti i fondamentalismi medio- ed estremo-orientali degli ultimi anni.

 

Ovviamente il problema è nella sua essenza culturale.

Una cultura liberal-capitalista, che fin dal suo sorgere dal ceppo illuminista non si è mai emancipata dai propri complessi di superiorità oramai bisecolari (e nemmeno dai simmetrici meccanismi di rifiuto e deformazione dell’altro che ne hanno nutrito genesi ed espansione, le avventure coloniali e neocoloniali, la genesi e la diffusione del razzismo e tutti i deliri giacobini di diffusione a mano armata dell’”unica civiltà” che ritiene di meritare questo nome, sulle ceneri e le macerie di chi non si trovi dalla parte buona del “senso della storia”) nel rapporto con altri popoli ed altre civiltà non è riuscita a far tesoro non tanto di quella Cultura tradizionale rifiutata dogmaticamente, ma nemmeno della lezione delle scienze umane ed antropologiche del Novecento, rimanendo ferma a schemi ottocenteschi di tipo materialistico ed evoluzionistico che le hanno impedito di capire (beninteso non di convertirsi all’altro, ma solo di comprenderlo) popoli e culture diverse da sé, se non riconducendoli forzatamente all’interno del proprio schema ideologico come fase primitiva e “bambina” di sé stessi, incarnazione di una modernità che continua a percepirsi come trionfante, a dispetto di tutte le lezioni del secolo XX.

Lo stesso è avvenuto, e sta ancora avvenendo, nei confronti di un animale dalle caratteristiche semileggendarie, una via di mezzo fra una Manticora ed un Ircocervo, quell’ampia e complessa esperienza di sincresi tra ideologie della modernità e culture religiose diverse, che è storicamente il fondamentalismo.

Fondamentalismo. Come ogni parola che entra di prepotenza nelle correnti vorticose della comunicazione di massa, anche questa tende a stingere il proprio significato fino a cessare di essere un concetto dotato di confini e senso, e diventare un insulto prêt-a-porter capace di estendersi e spostarsi all’infinito, in mano a  chi al momento detenga il potere informativo, così anche questo termine oggi cruciale ha perso sulla strada dell’abuso massmediale definizione e precisione, finendo per essere usato con lo stesso stile e metodi degli insulti ideologici della seconda metà del ‘900 (“comunista”, “capitalista”, “fascista” etc.) e arenandosi nei medesimi risultati paradossali, come quello di definire ripetutamente sui maggiori media occidentali (e con notevole sprezzo del ridicolo) “fondamentalista” uno storico esponente del socialismo arabo laico e filo-occidentale baath come l’ex-dittatore iracheno Saddam Hussein.

Uscire da questo circolo perverso di riduzione dei concetti ad una neolingua in mano al potere è fondamentale prima di tutto per le difesa della nostra identità e cultura, e comporta un massiccio “ritorno al reale”, maxime alla realtà della storia. Si esce dalla perversione ideologica, che in modo sempre più evidente appare completamente interna al gioco dei fondamentalismi contrapposti, solo tramite una matura conoscenza della verità storica attorno alla nascita del concetto di “fondamentalismo” e dei veri movimenti fondamentalismi; un’indagine che dalla loro genesi e sviluppo trae in maniera per molti aspetti inaspettata la conferma di una loro profonda sintonia culturale e persino di una loro (solo in apparenza paradossale) contemporanea sinergia strategica.

Un primo tentativo di gettar luce su questo tema, senza farsi deviare dalle insidiose pressioni delle strumentalizzazioni politiche, si è concretizzato in un Corso di formazione semestrale organizzato dal GRIS (Gruppo di Ricerca ed Informazione Socio-Religiosa) della Diocesi di Rimini nella primavera del 2004 sul tema “I cattolici e i fondamentalismi”, con contributi di Maurizio Blondet, Franco Cardini, don Antonio Contri, Enrico Fasana, Mario Polia, Andrea Porcarelli, Natalino Valentini3; partendo da un inquadramento generale della fisiologia del fenomeno religioso, e quindi del rapporto fra tradizione cristiana e altre religioni, per poi scendere nella patologia contemporanea dell’esperienza religiosa, di cui il fondamentalismo è un esempio tanto eclatante quanto diffuso, anche se ovviamente non l’unico; infine, si è voluto precisare quale possa utilmente essere la posizione del laico cattolico oggi, di fronte ad una contrapposizione tra fondamentalismi in atto sempre più violentemente.

Un primo dato emerso dall’insieme delle Relazioni è che il Fondamentalismo religioso da un lato possiede una carta d’identità ben determinata, che ne individua le modalità di nascita con una notevole precisione sia cronogeografica che culturale.

Nello stesso tempo, si è palesato che il Fondamentalismo, grazie ad un complesso fenomeno di diffusione socio-culturale estesosi oramai su scala planetaria, a partire dalla propria dimora originaria (gli Stati Uniti d’America) si è diffuso in contesti culturali e spirituali del tutto difformi da quelli primevi, generando anch’esso fenomeni di inculturazione con caratteristiche originali, ma mantenendo tuttavia caratteri simili e comparabili: un effetto forse imprevisto della, certamente connesso alla globalizzazione.

Seguire con attenzione le modalità (spazio e tempo) di questo percorso di diffusione compone un quadro che di per sé appare alquanto significativo, in quanto tempi e luoghi di questo percorso si sovrappongono con grande evidenza alle tappe della diffusione del pensiero sociale e politico occidentale e moderno in contesti socio-culturali originariamente ad esso del tutto estranei: medio- ed estremo Oriente, Africa...

La diffusione del fondamentalismo religioso non appare quindi avvenuta a prescindere, ma al contrario sinergicamente all’”occidentalizzazione” del mondo. E di ciò si dovrà tener debito conto, a pena di isolare l’analisi di ogni singolo fenomeno di fondamentalismo in un’astrattezza astorica, senz’altro funzionale ad ogni possibile strumentalizzazione politica, ma del tutto incapace di comprendere le motivazioni di questa patologia contemporanea della religiosità umana, e pertanto di individuare gli opportuni percorsi preventivi e terapeutici.

Di fatto, oggi il ventaglio dei fenomeni socio-religiosi che vengono comunque accomunati sotto il termine “fondamentalismo” appare sempre più ampio, abbracciando contesti storico-religiosi del tutto differenti fra loro: Protestantesimo, Ebraismo, Islam, Induismo, alcuni fra i quali appaiono giunti assai di recente nell’esclusivo club fondamentalista, anche se facenti sfoggio dell’entusiasmo del neofita, come è il caso del recentissimo ed assolutamente paradossale – tenuto conto delle caratteristiche millenarie di quella tradizione religiosa - fondamentalismo indù.

 

In effetti, una delle caratteristiche comuni della ricostruzione orwelliana della realtà che appare accomunare tutti i fondamentalismi è in primo luogo il dispregio della storicità. Ma si tratta di un rischio che non appartiene solamente ad essi, e di nuovo appare essere comune all’”occidente” in tutte le sue forme. In effetti, perder di vista la storicità del fenomeno fondamentalista consente da un lato di isolare il fenomeno, etichettandolo banalmente come moralmente negativo, separandolo dal proprio contesto ed avvolgendolo in un’aura di insensatezza, estraneità alla storia e diabolicità che ripete, con la medesima malafede ed inutilità, il tentativo fatto dopo la fine del secondo conflitto mondiale di espungere l’esperienza e l’ideologia nazionalsocialista dal panorama della modernità.

Questo processo di separazione dalla storia non appare di per sé casuale: mira evidentemente a sollevare le ideologie della globalizzazione dalle proprie responsabilità nella genesi e diffusione del fondamentalismo religioso nel mondo presente; permette di isolare dal contesto gli altri fondamentalismi e di demonizzarli oscurando il ruolo e le responsabilità del proprio (oramai l’abbiamo capito: “fondamentalisti” sono sempre e comunque gli altri); oscura parimenti le ragioni profonde dell’esistenza di entrambi, proteggendole e perpetrandole nel tempo; ne mimetizza infine le complicità reciproche.

 

Il termine “fondamentalismo”, è sempre opportuno rammentarlo, è nato alla fine dell'Ottocento nel contesto del protestantesimo degli Stati Uniti d'America, designando una corrente teologica avversa alle scuole “liberali” e “scientifiche” in materia d'interpretazione della Bibbia, che sia in ambito protestante che cattolico iniziavano ad utilizzare metodologie di analisi ed esegesi del Testo sacro di tipo storico-critico, fondate su scienze da un lato di tipo filologico‑linguistico‑ storico‑archeologiche, dall'altra sulle scienze umane come la sociologia, l’etnologia, l’antropologia culturale, la psicologia analitica. Al termine della conferenza dei teologi “conservatori” tenutasi nel 1895 a Niagara Falls, questi sostennero che «sottoporre la Sacra Scrittura ai medesimi processi metodologico-critici usati per gli altri testi e gli altri oggetti storici fosse inutile sotto il profilo concettuale (essendo dotata la Sacra Scrittura di caratteri suoi propri, che trascendevano l'umana razionale comprensione) ed empio sotto quello teologico in quanto rischiava di attaccare, contestare, fraintendere o inquinare le Verità appunto fondamentali contenutevi»4. Secondo questi ambienti ciò era essenziale al fine di salvaguardare i fondamenti della fede cristiana evangelica, da cui il termine “fondamentalismo”, che si diffuse negli USA dopo il 1909, grazie ad una fortunata serie di opuscoli popolari di divulgazione religiosa, e da quella terra iniziò il proprio lungo cammino.

E’ interessante constatare come questa attribuzione di “incomprensibilità” sul piano razionale della Bibbia (sostenuta sulla base della sua natura rivelata) non fosse affatto ritenuta in contraddizione col principio cardine del protestantesimo, maxime quello calvinista-puritano, del cosiddetto “libero esame” della Scrittura stessa, secondo il quale nessuna autorità terrena può sostituirsi al singolo fedele (ed alla sua comunità di pari) nel suo rapporto diretto con Dio attraverso la Scrittura. L’apparente contraddizione si scioglie in realtà sul piano antropologico: ammettere un’analisi “scientifica” della Bibbia comportava la riscoperta di un certo tasso di “oggettività”, per quanto relativa e mondana; al contrario: proprio perché escludeva rigorosamente il valore dell’analisi scientifica e razionale del Testo sacro, la difesa fondamentalista lasciava campo libero a quella pletora di interpretazioni individuali, “ispirate” e misticheggianti, la cui profusione incontrollata è base della polverizzazione della parte più “calda” del protestantesimo statunitense contemporaneo (quella della Moral majority e dei cosiddetti born again, i “rinati”, cui bisogna ricordare che appartiene anche l’attuale Presidente degli Stati Uniti George Bush jr.), e della sua natura non super-razionale ed universale, ma semplicemente e coscientemente individuale ed irrazionale.

Il fondamentalismo nasce quindi in ambito protestante statunitense, come reazione all’impatto delle scienze umane e storiche contemporanee con quel mondo culturale: si tratta evidentemente di una reazione che in termini psicanalitici si definirebbe di “difesa”. Non a caso la succinta analisi dei punti essenziali dell’ideologia fondamentalista statunitense fatta da Franco Cardini5. vede in modo significativo, accanto ad affermazioni strettamente inerenti l’esegesi della Bibbia (i principi dell’inerranza della Sacra Scrittura, dell’astoricità della Verità divina ivi rivelata, e della superiorità della Legge di Dio contenuta nella Bibbia stessa rispetto ad ogni Legge terrena), altri “punti forti” che scaturiscono dalle radici stesse dell’esperienza puritana, segnando profondamente il genoma della cultura religiosa e politica degli Stati Uniti d’America e l’identità stessa delle comunità che dal XVIII secolo si radunano sulle coste del Nuovo Mondo alla ricerca –non dimentichiamolo - di una “nuova terra” in cui edificare un “nuovo Israele” contrapposto ai compromessi mondani della “vecchia Europa”.

Ed in questo senso, ci accontentiamo di notarlo di sfuggita, giustamente si è notato come la critica cattolica novecentesca al modernismo teologico, al di là di superficiali accostamenti, non sia assolutamente comparabile col fondamentalismo protestante, nemmeno nelle sue espressioni più rigorose ed estreme, come il cosiddetto “tradizionalismo cattolico”6.

L’aspetto “identitario” della difesa fondamentalista statunitense si accentra attorno ad alcuni punti essenziali:

a) la ricerca di un'identità forte dei gruppi fondamentalisti;

b) la “mobilitazione totale” dei militanti;

c) la sindrome del “nemico metafisico”.

Il primo punto ritorna alla pretesa degli ambienti fondamentalismi di rappresentare un “ritorno alle radici”, alla “purezza originaria” dell’esperienza non solo protestante statunitense, ma tout court cristiana (il che rende ragione del distacco fra le frange “calde” del protestantesimo statunitense e molte fra le grandi confessioni riformate, distacco che non è solo dottrinale ma anche organizzativo e politico, concretizzandosi nell’auto-esclusione della maggior parte di questi ambienti fondamentalisti dall’ambito della “Conferenze Ecumenica delle Chiese” – KEK - impegnata nel dialogo ecumenico). Proprio perché pretende di incarnare la Verità, il fondamentalista non può infatti essere interessato ad alcun tipo di “dialogo ecumenico” o, ancor più nettamente, “interreligioso”.

Il secondo punto connota in modo netto la differenza (sia sul piano culturale che sociale) fra i gruppi fondamentalisti e gli ambienti genericamente “conservatori” o “tradizionalisti”: si tratta di una caratteristica comune e fondamentale delle grandi ideologie della modernità, dal giacobinismo al nazionalsocialismo al comunismo, per le quali la persona esiste se ed in quanto si rivela utile ed adeguata alle necessità di rifondazione del reale dettate dall’ideologia; il fondamentalismo protestante sottolinea in questo modo le sue radici profonde, ponendosi al fianco delle altre ideologie pseudoreligiose contemporanee.

Il terzo punto appare una conseguenza necessitata della secolarizzazione che permea le radici stesse dei fondamentalismi contemporanei, un chiaro esempio di spostamento su un piano immanente e mondano della metafisica della storia cristiana (con particolare riguardo all’apocalittica) e alla consequenziale identificazione di sé stessi con il Bene e “le truppe di Dio”.

Ben si comprende come la retorica di questa rappresentazione non si reggerebbe se non attraverso un processo simmetrico: la designazione –parimenti secolare e mondana - del campo del Male, e delle “truppe di Satana”. Questo meccanismo proiettivo rende ragione di una caratteristica del pensiero politico statunitense che ha colpito numerosi osservatori: la sua necessità di trovare sempre un “asse del male” con cui legittimare la propria missione salvifica secolarizzata: nei primi anni ’40 il nazismo, poi il comunismo, dopo il 1990 l’Islam7.

Non sorprenderà la constatazione che tutti questi tre punti appaiono tipici di una temperie culturale e spirituale del tutto moderna, evidenziando molteplici punti di contatto con l’elaborazione culturale e politica del romanticismo europeo, particolarmente di quella parte dell’Europa di appartenenza religiosa riformata: radici comuni che conducono ad evoluzioni parallele di un generale atteggiamento nei confronti del mondo, di una specifica weltanschauung..

Il rifiuto della storicità dell’esperienza religiosa e la confusione fra piano storico e piano provvidenziale; la conseguente identificazione di sé con il Bene e dell’altro con il Male conduce ad un altro scivolamento dalle conseguenze drammatiche: una volta auto-arruolatisi nei ranghi dei Combattenti di Dio è possibile arrogare a sé stessi, in quanto soggetto storico e politico, i diritti sull’universo tipici del Dio che ritorna alla fine dei tempi per la Restaurazione finale: questi aspetti generati dalla secolarizzazione del protestantesimo statunitense si svelano da un lato essere un’applicazione particolare di un più generale meccanismo di secolarizzazione del sacro e di simmetrica divinizzazione dello Stato tipici del romanticismo occidentale del XIX secolo, e d’altro canto ritornano con una insistenza addirittura ossessiva in tutte le esperienze fondamentaliste contemporanee, svelandone in tal modo una radice culturale essenziale, al di là dell’apparente eterogeneità della tradizione religiosa di riferimento8.

Il fondamentalismo, in quanto creazione assolutamente moderna, si svela essere assai più vicino, ideologicamente e nella sua “visione del mondo” agli altri fondamentalismi piuttosto che alla tradizione religiosa su cui si innesta e in cui pretende di rappresentare un “ritorno alle origini”.

Un immediato paragone con un'altra forma di fondamentalismo contemporaneo sarà utile ad illuminare questa simmetria: il fondamentalismo islamico.

«Quello che oggi si definisce “fondamentalismo islamico”, e che meglio forse sarebbe definibile come “radicalismo”, è l'insieme dei molti movimenti - peraltro differenti tra loro, e spesso reciprocamente ostili - che all'interno dell'umma musulmana a partire dagli anni ‘20 del 900, anche in reazione alla decadenza dei grandi imperi islamici (il turco, l'indiano moghul, il persiano) sotto la pressione del colonialismo occidentale sono sorti per riaffermare la necessità di ricondurre l'ordine civile e sociale dei paesi islamici all'originario rispetto dei valori delle “tre D”: Din (“fede”), Dunya (“società”), Dawla (“politica”), tre dimensioni sentite come complementari e coerenti e che storicamente avrebbero agito nella storia al tempo dei Profeta e dei suoi primi successori, i califfi detti “i ben guidati”»9..

Fin dall’esperienza primeva degli ormai celeberrimi “Fratelli Mussulmani” egiziani, il fondamentalismo islamico appare anch’esso chiaramente ispirato ad una “difesa” nei confronti della modernizzazione colonialista che giunge a produrre effetti paradossali, fino ad adottare caratteristici aspetti della modernità come armi contro la modernità stessa. Franco Cardini elenca in questo modo i càrdini ideologici del fondamentalismo islamico:

«- la riaffermazione del tawid (il monoteismo rigoroso), l'idea che i luoghi nei quali la presenza degli infedeli sia troppo forte vadano sgombrati dai credenti mediante l'abbandono (“egira”, hijra) o riconquistati mediante uno sforzo sulla via di Dio, jihad).;

- la tesi che si debba conferire nuova vita alla fede pura degli antichi (salaf);

- la fiducia nel prossimo arrivo di un rinnovatore della tradizione che fonderà il “regno dei giusti” prima del Giudizio e che sarà “l’Atteso”, il Mahdi.»10.

Da parte nostra aggiungiamo un connotato solo apparentemente secondario: da un lato nella predicazione politica del fondamentalismo più recente, ad esempio in Osama bin Laden, la tesi secondo cui si debba completamente purificare la “terra sacra” dell’Islam (identificata com’è noto nell’Arabia Saudita) dalla presenza degli “infedeli” ha acquistato una rilevanza sempre maggiore; nello stesso tempo è evidente l’identificazione di un “nemico metafisico” connotato dalla definizione “crociati ed ebrei”, che riunisce in un solo contenitore dispregiativo gli israeliti a tutti i cristiani, nella più completa indistinzione fra cattolici, ortodossi e protestanti, storiche Chiese orientali presenti da secoli nel Vicino e Medio Oriente e born again statunitensi.

Anche qui notiamo, accanto alla più radicale incomprensione della concretezza storica dei rapporti fra confessioni religiose abramitiche nell’area medio-orientale, una commistione di istanze puramente religiose e meramente politiche, frutto ancora una volta di una radicale secolarizzazione di ciò che massimamente si presenta, nella tradizione delle tre religioni uscite dal comune ceppo abramitico, come trascendente: la salvazione cosmica alla fine dei Tempi.

Frutto palese di siffatta commistione appaiono essere:

a)      la pretesa di ritornare all’indietro nel fiume della storia fino ad una ”purezza originaria” della fede islamica;

b)      l’individuazione di una “terra santa” in cui solo il “popolo dei salvati” può vivere (e non sarà inutile ricordare come mai nella storia l’Islam abbia pensato una siffatta radicale “pulizia etnico-religiosa”), e la cui purezza (sia del popolo che della terra) è segno e misura del successo nella lotta contro il male;

c)      infine l’attesa di un Restauratore mondano che giunga a fondare un regno di giustizia nell’al di qua, per mezzo della liberazione della “terra santa” da tutti gli esponenti della neo-stirpe dei “crociati ed ebrei”.

La «…rivendicazione del valore assoluto del Libro (nel caso islamico, il Corano), esistenza di un forte mito di fondazione (la “società perfetta” del primo Islam, che ha qualche somiglianza con l'idea cristiana della “Chiesa delle origini”), opposizione rispetto alle tendenze religioso-liberali sentite come varco aperto al progresso nel mondo d'un modello di società che possa “far a meno di Dio”, senso di forte appartenenza identitaria degli adepti dei vari gruppi, sono i connotati che hanno indotto, per analogia con il movimento statunitense inaugurato dalla conferenza di Niagara Falls dei 1895, a parlare di un “fondamentalismo islamico”»11.

Dobbiamo al prof. Enrico Fasana l’aver centrato in più occasioni l’attenzione su di un altro aspetto essenziale del fondamentalismo islamico contemporaneo, che lo pone da un lato in stretto parallelismo con il fondamentalismo protestante cristiano, e nel contempo in drastica rotta di collisione con l’Islam tradizionale: l’odio verso il culto dei Santi.

Ovunque il fondamentalismo islamico si sia affermato politicamente, (dalla Cecenia all’Afghanistan) ha assunto come proprio nemico proprio quella formulazione della tradizione islamica accentrata attorno all’esperienza delle Confraternite (tariqah) fondate dai Santi islamici. In modo particolare, all’indomani dell’invasione dei Taliban dell’Afghanistan, parallelamente alla conquista del territorio afgano strappato alle milizie islamiche locali, successivamente riunitesi attorno alla nota figura del Comandante Massud, le milizie fondamentaliste, nella più assoluta indifferenza dei media internazionali, iniziarono un’opera di sistematica distruzione di tutti i Santuari islamici afgani, che normalmente sorgono accentrati attorno alla tomba di un Santo, ovviamente in nome del ritorno alla purezza della fede islamica “delle origini”: l’eco della distruzione delle antiche statue dei Buddha di Bamian è in effetti stato assai diverso, come se rispetto ad esse la distruzione delle secolari vestigia dell’Islam afgano non valesse la stessa attenzione, né la stessa corale indignazione planetaria12.

 

Il medesimo parallelo valoriale sommariamente accennato riguardo ci sembra parimenti utile per illuminare più in profondità il meno studiato, ma altrettanto indicativo della temperie spirituale e culturale di un popolo di antichissima tradizione nel suo incontro-scontro con la modernità: il fondamentalismo ebraico.

Dopo l’assassinio del premier israeliano Itzkhach Rabin, nel novembre 1995 da parte di Ygal Amir, un membro del gruppo nazional-religioso Kach, la presenza e la forza di un fondamentalismo ebraico all’interno stesso dello Stato d’Israele è stata evidente anche ai commentatori meno avveduti. In effetti, già nel 1994 un altro adepto del medesimo gruppo, Baruch Goldstein, si era reso colpevole della strage alla Moschea di Hebron. Ma non si tratta di un gruppo isolato: basterà ricordare le sigle del movimento Kahande Hai fondato nel 1991 da fedeli dal rabbino Benjamin Kahane, e quella della Yeshiva (Scuola rabbinica) Ateret Cohanim, da anni al centro dei reiterati tentativi di demolire le Moschee di Gerusalemme per ricostruire il Tempio ebraico13. Con grande attenzione e costante riferimento a testimonianze quasi completamente ignorate, quantomeno in Europa, è stato Maurizio Blondet ad aprire una nuova finestra sull’ideologia religiosa del fondamentalismo ebraico, e nel contempo sugli anticorpi spirituali che la parte migliore della tradizione religiosa ebraica secerne, sovente del tutto ignorata dai media e dagli studiosi occidentali14.

Lo studio del fondamentalismo ebraico, al pari di quello islamico, ci riporta ad una prospettiva del tutto moderna all’interno del plurimillenario percorso di questo popolo. Vari sono stati gli osservatori che hanno notato quella che appare una plateale contraddizione, ossia «Il fatto che il fondamentalismo ebraico si sia collegato così strettamente alla causa nazionalista-sionista, notoriamente “laica” e come tale vista con sospetto dai gruppi ebraici religiosi più severi, è una prova ulteriore del carattere non religioso, bensì piuttosto politico delle tendenze fondamentaliste in quanto tali»15.

Il nodo del rapporto fra il fondamentalismo ebraico contemporaneo e il sionismo è in effetti complesso, come complesse sono le radici culturali del movimento sionista stesso, frutto originario – lo ricordiamo – del “romanticismo politico” dell’Europa ottocentesca, persa dietro utopie di restaurazione di unità “primordiali” di sangue e suolo i cui frutti matureranno nei primi decenni del novecento16; in questa grande complessità, la pretesa dei fondamentalismi ebraici di incarnare l’autentico sionismo, ossia il pieno e perpetuo ritorno del Popolo ebraico alla Terra di Israele, non è priva né di una apparente attendibilità né di estimatori, sia in patria che altrove.

Ovviamente è a scopi esplicativi (e non per negare la specificità di ogni fenomeno fondamentalista, compreso quello ebraico, riconducendoli in modo deterministico ed evoluzionistico ad unum)) che riprendiamo lo schema già utilizzato in ambito islamico. Il fondamentalismo ebraico, anch’esso, appare connotato dalle seguenti caratteristiche:

a)      la pretesa di risalire all’indietro nel fiume della storia fino al recupero di una ”purezza originaria” della fede ebraica: ne sono un esempio da un lato le velleità di ricostruzione del Sinedrio come suprema autorità religiosa e politica dell’Ebraismo, e nel contempo i tentativi di ricostruzione del Tempio di Gerusalemme “dove era, come era” prima della sua distruzione, del Culto che in esso era praticato prima della distruzione, fino a progettare una rivitalizzazione della catena genetica del sacerdozio ebraico antico17;

b)      l’individuazione, per mezzo di una lettura letteralista della Bibbia, dell’esistenza e persino dei confini di un Eretz Israel, una “Grande Israele” dal Nilo all’Eufrate, che riporta alla memoria i deliri nazionalistici di molte altri contesti euro-occidentali e all’interno del quale solo il “popolo dei salvati” può vivere, la cui unità e purezza (sia del popolo che della terra, quindi con connotati assieme etnici e religiosi) è segno e misura dell’avvicinarsi concreto, in questo mondo, dell’avvento dei tempi messianici;

c)      infine, l’identificazione del Messia (figura comune, sia pure con connotati non esattamente sovrapponibili, all’insieme della tradizione ebraica, cristiana e musulmana) con lo stesso popolo ebraico, il cui compito diviene quindi quello di giungere a fondare il Regno di Giustizia nell’al di qua, godendo implicitamente dei diritti messianici sull’universo. Trae quindi una sua sinistra concretezza il rinnovato utilizzo di storici slogan quali “Dio è con noi” da parte degli ambienti più militanti del fondamentalismo ebraico, evidentemente ignari della tremenda ironia storica di questa appropriazione18.

Ovviamente la parte più avvertita della cultura e della civiltà ebraica ed israeliana (ché le due cose non coincidono perfettamente, come molti continuano ad obliare) ha da tempo colto la pericolosità di queste degenerazioni fondamentaliste, ed è interessante constatare che questa attenzione critica unisce quella che sui media si è usi chiamare la “sinistra” israeliana con gli ambienti più tradizionali in senso spirituale dell’Ebraismo. Ed è parimenti sintomatico che queste voci critiche, che si uniscono alle altre che sia in ambito cristiano riformato che islamico si levano da anni per denunciare e combattere le rispettive derive fondamentaliste, a differenza di quanto si potrebbe credere sono assai poco note, per nulla valorizzate dai grandi canali di comunicazione di massa, quasi rimosse per la loro oggettiva irriducibilità alla rappresentazione semplificata della realtà che i media non posso evidentemente fare a meno di fabbricare e di imporre. Non avendo alcuna tendenza complottista, al massimo possiamo cogliere in ciò solamente un residuo di malafede ideologica, per la quale tutti i fondamentalismi sono criticabili, ma alcuni sono meno fondamentalisti di altri, mentre le graticole dell’esecrazione planetaria si accendono e si spengono con un’interessante asimmetria.

Due brevi citazioni, fra tutte quelle possibili, possono introdurre il lettore europeo ad una miglior valutazione del problema del fondamentalismo ebraico e delle sue conseguenze all’interno della cultura ebraica e della società israeliana:

«Da Tel Aviv lo scrittore e pacifista Uri Avneri si inquieta della "destra religiosa" israeliana, la quale ha cominciato a definire gli ebrei secolari "amaleciti": popolo che Jahveh avrebbe ordinato di "sradicare". «È la base teologica per la guerra civile», protesta Avneri»19.

In una drammatica missiva all’odierno Presidente degli Stati Uniti, il rabbino Russel Waxman, esponente di primo piano di quella corrente minoritaria ma esemplare del mondo religioso ebraico che dal XIX secolo si è opposta al progetto sionista prima, ad ogni forma di fondamentalismo oggi, scrive:

«Fin dalla distruzione del Tempio e dall'esilio del popolo ebraico durato circa 2000 anni, siamo stati obbligati ad essere scrupolosamente leali verso i paesi nei quali risiediamo, senza mai cercare di stabilire delle sovranità indipendenti, né in Terra Santa né altrove. Uno dei grandi profeti biblici, Geremia, nel capitolo 29 del suo libro, proclama il messaggio di Dio agli esiliati; il verso sette dice: "Cerca il benessere della città in cui ti ho esiliato, e prega per esso l'Altissimo, poiché attraverso il suo benessere anche tu avrai benessere". Questa è la pietra d'angolo della moralità ebraica dalla storia ad oggi.

Il movimento sionista rigetta tutti i principi fondamentali della Torah e dei rabbini. Gli ebrei non hanno bisogno di uno stato per conto proprio. La stessa creazione di uno stato "ebraico" è una grave violazione della legge e delle tradizioni ebraiche.

Dunque esso non rappresenta in alcun modo il popolo ebraico e non ha il diritto di parlare a suo nome. Le sue parole, dichiarazioni ed azioni non sono in alcun modo rappresentative del popolo ebraico. Noi deploriamo gli atti e la politica di violenza portati avanti da coloro che - abusando del nome di Israele - hanno sostituito gli insegnamenti della Sacra Torah con un ideale di nazionalismo.

Per questo, signor Presidente, è massimamente urgente che lo stato d'Israele non sia definito stato ebraico, ma stato sionista. Il fondamento della sua esistenza non è il Giudaismo, ma l'ideologia sionista. Siamo estremamente preoccupati del fatto che definirlo "stato ebraico" metta in pericolo il benessere degli ebrei in tutto il mondo, ponendo una connessione tra gli ebrei e il Giudaismo e le terribili azioni commesse dallo stato sionista. Lo stato sionista ed i suoi sostenitori in tutto il mondo cercano di prendere tutte le misure possibili, incluse quelle che provocano l'odio per gli ebrei a causa delle politiche israeliane, atte a convincere gli ebrei a trasferirsi, dai loro paesi nativi, nello stato d'Israele. Invero, l'odio per gli ebrei è la linfa vitale e l'ossigeno del movimento sionista e del loro stato, che sono in totale contrasto con il giudaismo.

Sentiamo anche molto dolore per la mal riposta simpatia dei cristiani evangelisti verso il sionismo. Se essi conoscessero la verità sul sionismo, non potrebbero supportarlo20.

 

Non stupirà infine che lo spettro semantico del termine “fondamentalismo” abbia condotto a qualificare come tali anche molti altri fenomeni di radicalismo religioso presenti nell'induismo e nel sikhismo.

Il percorso storico del fondamentalismo induista, che si restringe in un lasso di tempo ancora più schiacciato sulla contemporaneità rispetto ai “fratelli maggiori”, ripete quasi pedissequamente tappe e modi già più volte sottolineati in contesti religiosi diversi: la stessa invenzione di un’ “identità indù” rappresenta, per chi conosca l’assoluta eterogeneità etnica e storica dell’immenso sub-continente indiano, una innovazione inconcepibile ancora al tempo della grande esperienza del “Partito del Congresso” del Mahatma Gandhi e di Chandra Bose. Come ben sanno gli storici delle religioni, lo stesso termine “induismo” è invenzione occidentale; un indiano fedele alla propria tradizione religiosa non definirà mai sé stesso “induista”, ma definirà in termini molto più precisi e specifici il proprio dharma nel contesto della propria appartenenza castale e geografica; inoltre, benché la suddivisione in Caste separi la società indiana (al di là delle ipocrisie della vigente Costituzione, che “abolisce” le Caste con la stessa vacua sicumera di chi pretende di cancellare realtà storiche millenarie con una legge approvata per alzata di mano) in livelli ben distinti fra di loro, la stessa concezione di una “stirpe” indù, omogenea e quindi assumibile come un patrimonio da difendere, rappresenta un paradosso storico e nello stesso tempo un impianto concettuale nella cultura indiana tipicamente occidentale e moderno, frutto avvelenato del colonialismo culturale occidentale prima, del neocolonialismo delle ideologie novecentesche poi.

La cronaca degli ultimi cinque anni ha aperto gli occhi sull’esistenza e sul modus operandi delle organizzazioni fondamentaliste indù, la più nota delle quali è uno dei maggiori partiti politici indiani contemporanei, il Bharatiya Janata Party, denominazione che viene usualmente tradotta con “Partito nazionalista indù”, attorno al quale sono nate una costellazione di organizzazioni paramilitari come il Rashtriya Swayamsevak Singh, che si è ripetutamente distinta per le aggressioni a sacerdoti e seminaristi cristiani, senza alcuna distinzione fra chiese cristiane tradizionali indiane (lì presenti da secoli) e le confessioni protestanti d’importazione statunitense.

Ancora una volta, il fondamentalismo indù presume:

a)      di rappresentare null’altro di un ritorno alla ”purezza originaria” dell’induismo, per mezzo di un’inedita “mobilitazione delle masse” indù contro ogni fede religiosa diversa, dall’Islam al Cristianesimo in tutte le sue forme (ed alcune, sarà bene rammentarlo, sono presenti nel sub-continente indiano dall’alto Medioevo senza che ciò abbia mai causato problemi di convivenza fino agli ultimissimi anni del secolo appena trascorso);

b)      di scolpire i confini dell’India (da cui i conflitti endemici in terre che da secoli vedono la presenza di comunità miste) come delimitazione sacrale di una “terra pura” in cui solo il “popolo dei puri arya” di religione indù possa pretendere di vivere;

c)      infine, secolarizzando le tradizionali attese del Restauratore finale proprie della tradizione indo-buddhista (accentrate attorno alla figura del Restauratore alla fine dei Tempi, il Kalki-Avatara) ritiene possibile fare dei movimenti politici “nazionalisti indù” l’esatto equivalente di un Restauratore mondano che giunga a rifondare una nuova Età aurea nell’al di qua, per mezzo della liberazione della “terra pura dell’India” da tutti i musulmani, i cristiani e, in taluni casi, anche i buddhisti.

 

Proviamo ora a trarre qualche iniziale sintesi. Da questo veloce sguardo d’insieme sulle fenomenologia, oltre che sull’ideologia, dei movimenti fondamentalismi contemporanei nel loro insieme, appaiono con stimolante chiarezza alcune costanti:

  1. La neostoria. In significativa continuità con quanto pensato e realizzato dalle ideologie della modernità (dall’illuminismo al liberalismo, dal marxismo al razzismo) nel corso dei secoli XIX e XX, i fondamentalismi appaiono accomunati dall’assunzione acritica e pregiudiziale di una serie di dati pseudo-storici, assunti dogmaticamente come reali, e attorno ai quali la discussione viene semplicemente rimossa: che si tratti della definizione di un supposto Cristianesimo degli Apostoli od Islam puro delle origini (che si contrappongono evidentemente alle tradizioni del Cristianesimo e dell’Islam nella loro concretezza storica) a cui ritornare, che si tratti dell’Eretz Israel o di un “puro Induismo originario” parimenti mitologico, in ogni caso appare evidente il simmetrico processo di sacralizzazione di aspetti mondani delle propria tradizioni storiche, al fine di fungere da presupposti, e di conseguenza da giustificazioni a conseguenti affermazioni di carattere politico. Appartiene a questa categoria anche la pretesa di “incarnare” e quindi di “difendere” una presunta comune identità di Europa e Stati Uniti, racchiusa nella categoria, nuovamente avvolta da caratteristiche semi-sacrali mitologizzanti, di “Occidente”21.
  2. Blot und Boden. Un altro aspetto comune ai diversi fondamentalismi ci riporta all’orizzonte concettuale della modernità più piena: la costante riproposizione di forme di “mistica del sangue”. Ciò che l’ideologia nazionalsocialista ha preteso di fondare su un ritorno archeologico e parodistico a forme di sacralità germanica precristiane mescolato con le risultanze delle scienze biologiche, i fondamentalismi fondano sulla comune pretesa di costituire un “ritorno alle origini” della propria tradizione religiosa, un illud tempus restaurato tramite la mobilitazione delle masse dei Credenti. Il fondamentalismo protestante continua ancor oggi a fondarsi su un’identificazione di fondo fra il cristiano born again e la società dell’America profonda ancora impregnata di retorica WASP (White, Anglo-Saxon, Protestant), e in questa identificazione profonda affonda le proprie radici la malapianta del razzismo statunitense22; il fondamentalismo islamico addirittura inventa un’equazione fra “arabo” e “islamico”, pretendendo di dover imporre una “pulizia etnica” all’interno della propria personalissima versione del Dar-al Islam da ogni presenza di stirpi non arabe, e saltando a piè pari, tamquam non esset, la millenaria storia delle comunità cristiane di stirpe araba nei vasti territori del medio Oriente, e la lezione di convivenza di stirpi, religioni e cultura differenti ancora percepibile nella stagione terminale dell’Impero Ottomano. Il fondamentalismo ebraico giunge a fondere la qualifica del “popolo” messianico con il Messia stesso, rinnovando cavillose casistiche giuridiche tendenti a separare bene l’ebreo dal non ebreo (il che significa, nella teoresi allucinatoria di questi ambienti, la definizione del confine tra il dominatore e il dominato) e coltivando utopie di restaurazione socio-politica che si fondano su un progetto di distruzione non solo della presenza cultuale dell’altro (sia cristiano che islamico) per mezzo della distruzione dei suoi Luoghi Santi gerosolimitani, ma anche ed a maggior ragione della sua mera presenza fisica: l’altro diviene sinonimo di “profanazione”, l’estinzione della sua presenza, di contro, diviene virtuoso sinonimo di “purificazione”, mimesi fondamentalista del termine “rigenerazione” di illuministica e massonica memoria.
  3. Una terra per un popolo. Tutto il percorso storico dell’Europa, tra XVIII e XX secolo, è vissuto del peso progressivo di una serie di dinamiche culturali e politiche che sono sfociate nell’esplosione delle guerre civili europee novecentesche. Fra queste, l’ubriacatura nazionalistica ha avuto un peso preponderante, ed è notorio che essa aveva un presupposto fondamentale, che ne sorreggeva le pretese ideologiche di “rigenerazione” del reale, per riprendere una tragica ed efficace espressione di Saint-Just: l’identificazione fra popolo, nazione e Stato. Nell’ottica nazionalista, ad ogni Stato doveva corrispondere una Nazione, e questa identificarsi con un singolo Popolo, dotato di omogenee caratteristiche etniche e culturali che lo distinguessero dagli altri. Trattandosi di una tipica allucinazione ideologica, la sola “purificazione” dei Popoli all’occasione predominanti dalla presenza “malefica” degli allogeni fu occasione di una serie di violenze di massa che ancor oggi in larga parte attendono la dèbita attenzione sul piano culturale e politico. Ad ogni modo, le rovine lasciate dalla seconda Guerra Mondiale hanno illuso molti, quantomeno in Europa, che la stagione dell’ideologismo nazionalistico fosse terminata, seppellita dai suoi stessi errori. Purtroppo la semplice esistenza dei fondamentalismi religiosi contemporanei costituisce la più drastica smentita di questa umanistica illusione. Tutti i Fondamentalismi appaiono far proprio il medesimo meccanismo di purificazione allucinatoria del nazionalismo otto-novecentesco, con l’aggiunta di un’ulteriore identificazione, fra la Terra, il Popolo e il Sacro, in cui l’identità religiosa appare infine radicalmente profanata nel suo essere asservita come giustificazione “messianica” dei deliri di onnipotenza nazionalistici di turno. Deliri la cui diffusione fa sempre più rimpiangere la mala accortezza con cui parte della cultura europea salutò come un ulteriore passo della marcia dell’umanità verso il progresso e il Sol dell’Avvenire, dopo il 1918, il definitivo smembramento degli ultimi Imperi sopranazionali euro-asiatici (l’Impero Asburgico, l’Impero Russo, l’Impero Ottomano).
  4. L’odio verso i Mediatori. Infine, colpisce un dato prettamente teologico, comune alla quasi totalità delle espressioni fondamentaliste contemporanee: la comune loro pretesa di essere nel contempo mezzo e fine del “ritorno alle origini” della purezza religiosa, si accompagna con la negazione del ruolo spirituale – in primo luogo – e sociale della Chiesa e delle Confessioni religiose tradizionali, delle Confraternite e delle Scuole spirituali tradizionali, fino alla concreta negazione della funzione di intermediario fra l’uomo e la divinità ricoperta dai Santi. L’identificazione fra i movimenti fondamentalisti e Dio stesso (frutto terminale del processo di secolarizzazione dell’esperienza religiosa contemporanea) conduce necessariamente alla negazione di qualsiasi forma di Mediazione fra l’uomo e Dio. Il fondamentalismo, a dispetto e attraverso la propria effigie retorica di movimento religioso rigorista, porta a compimento la riduzione del Sacro a parodia, erigendo in nome del ritorno alle fonti primeve della tradizione religiosa il più bestiale scimmiottamento del Sacro: il culto dell’Uomo e del suo potere sulla terra.

 

In effetti, questa costruzione di una parodia anticristica della religione (esattamente in linea con quanto Vladimir Solov’ev colse nella sua celebre ricostruzione letteraria dei tempi dell’Anticristo23) costituisce un esito obbligato dello sforzo fondamentalista di “rigenerazione” del mondo. La stessa assunzione degli assunti pseudostorici assume quindi senso se, e nella misura in cui, questi divengono il fondamento di una politica di potenza: essi si dimostrano tali se, e nella misura in cui, sia possibile imporli nella realtà, quasi necessariamente con la forza, in virtù della naturale resistenza delle identità concrete ai tentativi ideologici di “rigenerazione della realtà”. In questa dinamica obbligata, che abbiamo visto ripetersi numerose volte all’interno dei diversi filoni fondaentalisti, diviene palese la natura profondamente giacobina dei fondamentalismi, residuali “nazionalizzazioni delle masse” per le quali se la realtà smentisce i propri assiomi, tanto peggio per la realtà24. E come ogni altra sindrome paranoide, anche queste vengono radicalmente demistificate dichiarando che il re è nudo, e che questa neostoria, nel migliore dei casi, rappresenta un indebito sconfinamento nella narrativa fantasy.

Esiste in ciò una profonda solidarietà fra i diversi fondamentalismi, a partire da quello protestante, ebraico ed islamico; ed a questo schema facilmente si potrebbe avvicinare l’ancor più recente fondamentalismo indù. Ogni fondamentalismo non riesce a vincere la tentazione di sacralizzare ciò che è mondano, pervertendo di passaggio la propria religione in idolatria: il popolo, sintesi di credenze ed etnia. Ed in ciò dimostra la propria radice culturale tipicamente occidentale e tardoromantica25.

 

Terapia antifondamentalista: per un ritorno al reale.

Chi scrive, da cattolico romano, è fermamente convinto che una cosciente cattolicità costituisca la miglior prevenzione contro ogni scivolamento paranoide fondamentalista, prima di tutto in ambito cristiano, ma non solo (e le posizioni della Chiesa Cattolica attorno all’evoluzione della politica mondiale degli ultimi due anni, a partire dalla cruciale questione della Terrasanta, ne sono un equilibrato esempio, a dispetto della chiassosa quanto ripetitiva pattuglia dei “cattolici” neocon d’adozione), e nello stesso tempo come il metodo comune di deformazione del reale utilizzato dagli ideologismi sette-ottocenteschi ieri come dai fondamentalismi oggi, è la menzogna per omissione, la sottrazione dalla complessità del mosaico del reale di tutte le tessere dal colore differente da quello desiderato26.

Ecco perché la più radicale terapia contro ogni ideologismo moderno, ed anche contro ogni fondamentalismo, permane la concretezza della storia e della storicità del reale. Ed il ritorno della cultura europea al rispetto della sua organicità.

Ritorno al reale significa in primo luogo demistificazione della neo-storia con cui tutti i fondamentalismi costruiscono quella parodia secolarizzata di Rivelazione che è la propria visione del mondo.

Si pensi all’utilizzo simmetrico del mito della Crociata come proto-“scontro di civiltà”: utilizzo simmetrico in quanto esso assume un valore positivo per il fondamentalismo occidentalista, e negativo per quello islamico; entrambi, tuttavia, condividendo la medesima definizione falsata del fatto storico, frutto di una simmetrica e convergente deformazione della realtà dei fatti storici della Crociata (ché per gli ideologismi post-illuministici, di cui il fondamentalismo si presenta in ogni sua forma sempre più come il conato terminale, la realtà in fondo in sé non esiste, sostituita dalla visione del Vate - laico o religioso - di turno)27.

Si pensi all’invenzione della categoria unitaria dell’ “Occidente”, che non solo nega i complessi percorsi di differenziazione che a partire dallo Scisma protestante hanno lacerato l’unità della Cristianità in una serie di frammenti sempre più eccentrici, affermanti la propria esistenza esclusivamente sulla base della negazione della storicità e della legittimità della Chiesa cattolica, ma che dopo due secoli di laicismo si riscopre bruscamente come “cristiano” se non proprio addirittura come “cattolico” senza cambiare nulla dei fondamenti sociali, culturali e spirituali della propria bisecolare apostasia, semplicemente per consentire l’arruolamento forzoso dei cattolici nei ranghi del “buoni” collaboratori del fondamentalismo protestante28.

Si pensi soprattutto alla vulgata martellata da occidentalisti laici e “cattolici”, che descrive gli Stati Uniti d’America non come una potenza che ha perseguito e persegue una propria politica di potenza planetaria dotata di caratteristiche del tutto peculiari sia sul piano religioso che economico e sociale (cosa perfettamente legittima, ovviamente, e che tuttavia sottolinea come l’Europa possa e debba fare legittimamente altrettanto sulla base dei propri interessi concreti, sempre più divergenti da quelli degli USA), ma come una “Grande Potenza Morale”, incarnazione del bene nella storia: «Gli Stati Uniti sono divenuti grandi, ricchi e potenti e oggi dominano il mondo perché sono stati impegnati in missioni di difesa della libertà e della democrazia contro i totalitarismi nazista, comunista e fondamentalista islamico»29

Si pensi alla generale esecrazione del terrorismo di matrice islamica, che si accompagna puntualmente alla rimozione di ogni seria meditazione storica su come e quando il terrorismo islamico sia nato, e da chi il fondamentalismo islamico l’abbia appreso come metodo di lotta politica e costruzione di entità statuali inedite prima di tutto all’interno della tradizione islamica stessa30.

Il fondamentalismo religioso appare quindi come l’ideologia residuale della modernità, segno autunnale di un’epoca che continua il suo rapido cammino vespertino, malgrado gli improvvidi entusiasmi di quella parte della cultura europea che, inesausta, continua a cercare di correre in aiuto del vincitore del momento31.

 

Adolfo Morganti

 

 

Note

 

  1. Sul tema, vedi A. Desiderio, “Iraq all’italiana”, in Limes n°1/2004, pp. 267 e segg.; per una critica dell’ideologia occidentalista vedi F. Cardini, Astrea. Le lobbies americane alla conquista del mondo, Milano-Bari 2003, e dello stesso Autore I cantori della guerra giusta. Religioni, fondamentalismi, globalizzazione, Rimini 2002.
  2. E’ infatti singolare che il coro generale di riprovazione di fronte alle rivelazioni delle torture contro prigionieri militari e civili iracheni perpetrate dalle truppe angloamericane, da agenti della CIA e persino da “privati” arruolati da Compagnie di ventura a libro paga delle multinazionali statunitensi cui è stata appaltata la parte preponderante della “ricostruzione” dell’Iraq conosca solamente il finale obbligato di confinare in sede giudiziaria il perimetro del problema al sadismo di ragazzetti semianalfabeti ignari anche dell’esistenza della Convenzione di Ginevra, allo scopo di occultare o sminuire le responsabilità politiche dell’amministrazione Bush. In realtà l’utilizzo di tecniche di destabilizzazione psicofisica (ovvero, torture fisiche e/o mentali) da parte degli apparti militari e di intelligence statunitensi ha alle spalle una lunga e gloriosa storia, e cause culturali (con radici religiose) ben precise. Senza voler esaurire l’argomento, si ricorderanno qui solamente le testimonianze dei prigionieri italiani “non cooperatori” dopo il 1945, il calvario patito dal poeta statunitense Ezra Pound, i risultati terrificanti delle ricerca di J. Bacque sulla gestione dei Campi di concentramento statunitensi per prigionieri di guerra tedeschi dopo il 1945, l’utilizzo diffuso e sistematico della tortura da parte delle dittature militari che dagli anni ’20 del secolo XX furono imposte dagli USA in larga parte dell’America centrale e meridionale, all’interno delle quali era soprattutto la CIA a seguire a partire dagli anni ‘50 la “formazione” degli addetti agli interrogatori compresa all’interno di ufficialissimi Military Assistance Programs autorevolmente “proposti” dalle differenti amministrazioni statunitensi ai governi amici centro- e sud-americani (su questi aspetti vedi J. Kleeves, Vecchi trucchi, trad. it. Rimini 1991, pp. 149 e segg.). Per non parlare dell’utilizzo sistematico della tortura al tempo della guerra del Vietnam, recentemente rievocato dalle parole di Colin Powell. Infatti, è recentissima la rivelazione dell’esistenza di un «manuale segreto del Pentagono» nel quale si autorizzano 20 diverse strategie di tortura sui prigionieri di guerra, metodi che «portano la firma anche del ministro della giustizia Ashcroft» e sono stati diffusi in Iraq direttamente dal generale Miller, già responsabile del carcere di Guantanamo ed ora, dopo lo scandalo, promosso a responsabile di tutte le carceri militari in Iraq (così G. Pioli, ne Il Resto del Carlino del 10 maggio 2004, p. 9). Alla radice di questa sistematica tendenza alla barbarie si trova l’assoluta incapacità della cultura politica statunitense di riconoscere una reale e pari dignità all’altro-da-sé. Come si vede, anche in questo caso chi ignora la storia è puntualmente condannato a riviverla.
  3. Degli Atti del Corso è prevista la stampa in un numero monografico della Rivista del GRIS Religioni e Sette nel mondo (per informazioni sul lavoro del GRIS e sulla sua Rivista, www.gris.org).
  4. F. Cardini, L’Europa e i fondamentalismi, passim.
  5. F. Cardini, L’Europa e i fondamentalismi, cit., passim.
  6. Sul tema, vedi introduttivamente Aa.Vv., “Il tradizionalismo”, numero speciale della Rivista del GRIS, n° 16, Bologna 1998.
  7. Attorno alle caratteristiche generali della cultura religiosa riformata, con una particolare attenzione alle sue implicazioni socio-politiche, vedi F. Fransoni, “La nascita dello spirito borghese”, in I Quaderni di Avallon n°5, Rimini 1984, pagg. 139 e segg. e la bibliografia ivi contenuta; attorno alle caratteristiche socio-religiose della cultura statunitense, vedi M. Eliade, “Paradiso e Utopia: il messianismo nella società americana”, ne I Quaderni di Avallon n°24, Rimini 1991, pagg. 29 e segg., e A. Porcarelli, Nuove religioni del continente americano, Milano 2000; sulla persistenza di pregiudizi anticattolici ed antieuropei all’interno della cultura statunitense contemporanea, vedasi introduttivamente JH. Rao, “L'americanismo e la crisi della Chiesa negli USA”, in Controrivoluzione, n°18-19/1992, pp. 15 e segg.; R. Gobbi, America contro Europa. L’antieuropeismo degli americani dalle origini ai giorni nostri, Milano 2002.
  8. Sul rapporto di imitazione parodistica che intercorre tra ideologie della modernità e esperienza religiosa vedi introduttivamente A. Morganti, “L’uomo dei Lumi: una mutazione antropologica”, ne I Quaderni di Avallon, n°20-21, Rimini 1989, pp. 89 e segg., nonché la bibliografia ivi contenuta.
  9. F. Cardini, art. cit.
  10. Idem.
  11. Ibidem. Sul tema, vedi anche K. Fuad Allam, “Paradigmi dell'Islam militante: l'epopea acculturata dei predicatori islamismi”, in Religioni e società n°14/1992, pp. 93 e segg.
  12. Sul tema, vedi E. Fasana, Islamismo fra Nazione e ideologia. I casi di India, Pakistan e Afghanistan, Relazione al Convegno di Studi sul tema “Un fantasma si aggira per l’Europa. Globalizzazione, fondamentalismi, conflitti di civiltà, organizzato da Identità Europea presso l’Università Cattolica di Milano in data 27/11/2001, pro manuscripto.
  13. Attorno ai mutamenti contemporanei della religiosità ebraica israeliana, vedi introduttivamente B. Beit-Hallahmi, “Identità giudaica e nuovi movimenti religiosi in Israele”, in Sette e Religioni n°7/1992, p. 343 e segg.; per un primo inquadramento della diffusione e delle caratteristiche del fondamentalismo ebraico contemporaneo cfr. M. Blondet I Fanatici dell’Apocalisse. Ultimo assalto a Gerusalemme, 3° ediz., Rimini 2002. Attorno al mito politico fondamentalista della ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, vedi, accanto a M. Blondet, I Fanatici…, cit., A. Baquis, “"Volevano far saltare in aria le Moschee di Gerusalemme". Il piano di un gruppo di terroristi ebrei.”, in La Stampa, 24/9/2003. pag. 8; M. Martinez, “È nata la giovenca rossa”, in Italicum, aprile 2002, p. 9.
  14. Di questo Autore vedasi inoltre Osama bin Mossad, Milano 200_; sulle complesse relazioni fra fondamentalismo ebraico e fondamentalismo protestante vedi Idem, “«Israele britannico», una dottrina occulta”, in Studi Cattolici, n°379/1992, pp. 593 e segg.
  15. F. Cardini, art. cit.
  16. Su questo tema vedi A. Morganti, Il razzismo. Storia di una malattia della,cultura europea, Rimini 2003, pagg.

17.  Cfr. M. Blondet,I Fanatici…, op. cit.; per il tentativo da parte di «rabbini ortodossi e nazionalisti» di ricostruzione del Sinedrio, cfr. G. Motta, “Sharon “investe” sui fedelissimi”, in Avvenire, 14/10/2004, p. 13. In questa luce assume un significato meno folklorico la recente notizia della “maledizione di morte”, in ebraico Pulsa dinura con cui un numero non precisati di rabbini fondamentalismi ha risposto alle intenzioni del premier israeliano Ariel Sharon di abbandonare la Striscia di Gaza (cfr. M. Blondet, “Contro Sharon fattura di morte dei rabbini estremisti”, www.effedieffe.it, 15/02/2005).

18.  «Dio è con noi» risulta infatti essere oggi una delle parole d’ordine della resistenza dei movimenti fondamentalismi attivi fra i coloni israeliani nella striscia di Gaza contro il piano di sgombero forzato di quell’area che l’attuale Governo di unità nazionale israeliano sta cercando di realizzare: cfr. A. Baquis, “Sharon: ci annetteremo le colonie cisgiordane”, in La Stampa, 16/02/2005, p. 6.

19.  M. Blondet, La terra promessa, il sionismo e le derive del fondamentalismo, in “Avvenire”, 30/09/04.

  1. Lettera al Presidente George W. Bush jr. del 27 giugno 2003; pubblicata in originale sul sito www.jewsagainstzionism.com .
  2. Su questo tema vedi F. Cardini, L’invenzione dell’Occidente, Rimini 2004 e Idem, I Cantori della Guerra giusta, cit.
  3. Sul tema cfr. A. Morganti, Il razzismo…, cit.
  4. Vedasi in proposito V. Solov’ev, I tre dialoghi, a c. di A. Ferrari, Casale Monferrato 2000.
  5. Non a caso Massimo Cacciari ha dichiarato sul numero 1 di Imperi che «L’esportazione della democrazia è un concetto giacobino. Nel 1791-1792 troviamo espressioni di giacobini francesi che sono paradossalmente identiche a quelle dell’attuale amministrazione americana… La nuova destra americana è solo un esempio di giacobinismo» (pag. 77). Attorno al tema vedi anche lo stimolante saggio di L. Canfora Critica della retorica democratica, Bari-Milano 2002.
  6. Attorno alle radici culturali occidentali e moderne del fondamentalismo, vedi O. Roy, Global Muslim. Le radici occidentali nel nuovo Islam, Milano 2003; M. Blondet, Chi comanda in America, Milano 2002; Idem, I fanatici dell’Apocalisse. Ultimo assalto a Gerusalemme, cit.
  7. Attorno a questo meccanismo allucinatorio, che appare accomunare direttamente le ideologie post-giacobine con i fondamentalismi, vedi innanzitutto il classico A. Cochin, Lo spirito del giacobinismo, Milano 1989; poi A. Morganti, “L’uomo dei Lumi. Una mutazione antropologica”, ne I Quaderni di Avallon n°20-21, Rimini 1989, pp. 89 e segg.
  8. Sul tema, vedi la recente sintesi di F. Cardini, Le Crociate in Terrasanta, Rimini 2004.
  9. Cfr. F, Cardini, L’invenzione dell’Occidente,cit.
  10. Così M. Teodori nella Prefazione al suo recente saggio L’Europa non è l’America. L’Occidente di fronte al terrorismo, Milano 2004. Queste interpretazioni liricheggianti del noto docente radicale, delineanti l’ormai noto panorama mentale di una Terra Promessa secolarizzata, suonano singolarmente consonanti con quelle di alcuni ultracattolici che sono migrati dal tradizionalismo ad altre forme di integrismo: ad esempio vedi M. Respinti, “Due rivoluzioni a confronto”, ne Il Timone, aprile 2004, p. 22, il quale sostiene che gli USA nascono come incarnazione di un «ideale antirivoluzionario», allo scopo di «conservare lo spirito giuridico e culturale della madrepatria» basandosi «su una idea di diritto naturale derivante direttamente dalla sua concezione tradizionale classica e cristiana»; pertanto «nella coscienza dei Padri fondatori degli Stati Uniti il modello illuministico-giacobino francese era la maledizione da fuggire con ogni mezzo», e che ogni immagine differente della storia statunitense è frutto della «propaganda di tipo socialcomunista» in quanto gli Stati Uniti sono «stati il più acerrimo nemico del pensiero marxista-leninista nel secolo XX». Nella Terra Promessa è evidente come ognuno vagheggi la fonte di latte e miele a sé più congeniale. A fronte di queste ricostruzioni puramente mitologiche della storia statunitense, un ritorno alla realtà appare quantomai urgente: si vedano quindi quantomeno F. Jennings, La creazione dell’America, Torino 2003; R. Gobbi, America contro Europa. L’antieuropeismo degli americani dalle origini ai giorni nostri, cit.; A. Spaventa-F. Saulini, Divide et Impera. La strategia dei neoonservatori per spaccare l’Europa, Roma 2003.
  11. Sul tema dei legami fra il terrorismo, le organizzazioni più note e famigerate del fondamentalismo islamico e il mondo occidentale, vedi introduttivamente M. Blondet, Osama bin Mossad, cit.; G. Bouthoul, “Attualità del terrorismo”, in La Destra n°1/1975, pp. 5 e segg.; G. Leso,”Nella lobby USA del petrolio l'altra verità su Bin Laden”, in www.arianna.it 14/11/2001.
  12. Per un primo inquadramento critico delle tesi e della prassi degli imitatori para-cattolici o pseudo-cattolici del fondamentalismo protestante, cfr. L. Copertino, “La deriva neoconservatrice della destra cattolica”, in Alfa&Omega n°1/2004, pp. 25 e segg.; R. Brague, “Cristiani e "cristianisti"”, in 30 Giorni, ottobre 2004, pagg. 40 e segg.