G.r.i.s. Gruppo Ricerca Informazione Socio Religiosa Diocesi di Rimini
Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto
"Salvarsi l'anima". Questa espressione antica ha nel linguaggio della fede un senso che appare messo radicalmente in questione dal libro di Vito Mancuso, L'anima e il suo destino (Milano 2007). Il volume ha suscitato un dibattito vivace, aperto dalla stessa lettera del cardinale Carlo Maria Martini, pubblicata in apertura, che - pur con grande tatto - parla con chiarezza di "parecchie discordanze (...) su diversi punti". L'autore si era fatto conoscere e apprezzare sin dalla sua opera prima, dal titolo suggestivo ed emblematico: Hegel teologo e l'imperdonabile assenza del "Principe di questo mondo" (Casale Monferrato, Piemme, 1996). Libro significativo, questo, attraversato da una lucida critica al monismo hegeliano dello Spirito e da una drammaticità, che contra Hegel ribadisce l'inesorabile sfida del male che devasta la terra, precisamente nel suo volto diabolico e insondabile. Anche altri saggi di Mancuso mantengono viva questa tensione, che si condensa in pagine profonde lì dove egli tocca il mistero del dolore innocente o scandaglia le profondità sananti dell'amore. Anche a motivo di queste premesse, il libro sull'anima ha suscitato in me un senso di profondo disagio e alcune forti obiezioni, che avanzo nello spirito di quel servizio alla Verità, cui tutti siamo chiamati.
La prima obiezione riguarda la potenza del male e del peccato: Mancuso non
esita ad affermare che il peccato originale sarebbe "un'offesa alla
creazione, un insulto alla vita, uno sfregio all'innocenza e alla bontà
della natura, alla sua origine divina" (167). È vero che l'intento
dichiarato dall'autore non è di "distruggere la tradizione",
ma di "rifondarla" (168), cercando di tenere insieme "la
bontà della creazione e la necessità della redenzione":
in quest'ottica, il peccato originale non sarebbe altro che "la condizione
umana, che vive di una libertà necessitata, imperfetta, corrotta,
e che per questo ha bisogno di essere disciplinata, educata, salvata, perché
se non viene disciplinata questa nostra libertà può avere
un'oscura forza distruttiva e farci precipitare nei vortici del nulla"
(170). La spiegazione non convince: dove va a finire in essa il dramma del
male, la potenza del peccato? Kant ha affermato con ben altro rigore la
serietà del male radicale: "La lotta che in questa vita ogni
uomo moralmente predisposto al bene deve sostenere, sotto la guida del principio
buono, contro gli assalti del principio cattivo, non può procurargli,
per quanto si sforzi, un vantaggio maggiore della liberazione dal dominio
del principio cattivo. Il guadagno più alto che egli può raggiungere
è quello di diventare libero, "di essere liberato dalla schiavitù
del peccato per vivere nella giustizia" (Romani, 6, 17-18). Nondimeno,
l'uomo resta pur sempre esposto agli attacchi del principio cattivo, e per
conservare la propria libertà, costantemente minacciata, è
necessario che egli resti sempre armato e pronto alla lotta" (Immanuel
Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione, Milano 2001, 111).
Come ha osservato Karl Barth, "quello che meraviglia non è che
il filosofo prenda in generale in seria considerazione il male (...) bensì
il fatto che egli parli di un principio malvagio, e dunque di una origine
del male nella ragione e in questo senso di un male radicale" (La teologia
protestante nel XIX secolo, Milano 1979, 338). Vanificare il peccato originale
e la sua forza attiva nella creatura vuol dire banalizzare la stessa condizione
umana e la lotta col Principe di questo mondo, che proprio Mancuso aveva
rivendicato contro l'ottimismo idealistico di Hegel.
La conseguenza di queste premesse è la dissoluzione della soteriologia
cristiana: se non si dà il male radicale, e dunque il peccato originale
e la sua forza devastante, su cui appoggia la sua azione il grande Avversario,
la salvezza si risolve in un tranquillo esercizio di vita morale, che non
vive più di alcuna tensione agonica e non ha bisogno di alcun soccorso
dall'alto: "salvarsi l'anima" non sarebbe né più
né meno che una sorta di autoredenzione. "La salvezza dell'anima
dipende dalla riproduzione a livello interiore della logica ordinatrice
che è il principio divino del mondo" - "La salvezza dell'anima
non dipende dall'adesione della mente a un evento storico esteriore, sia
esso pure la morte di croce di Cristo, né tanto meno dipende da una
misteriosa grazia che discende dal cielo" (311). La risurrezione di
Cristo risulterebbe così del tutto superflua: essa, per Mancuso,
"non ha alcuna conseguenza soteriologica, né soggettivamente,
nel senso che salverebbe chi vi aderisce nella fede visto che la salvezza
dipende unicamente dalla vita buona e giusta; né oggettivamente,
nel senso che a partire da essa qualcosa nel rapporto tra Dio e il genere
umano verrebbe a mutare" (312). Mi chiedo come siano conciliabili queste
affermazioni con quanto dice Paolo: "Se Cristo non è risuscitato,
allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra
fede" (Prima Corinzi, 15, 14). La confessione della morte e risurrezione
del Figlio di Dio fatto uomo è l'articulum stantis aut cadentis fidei
Christianae! Vanificata la soteriologia, ne consegue anche lo svuotamento
del dramma della libertà e la negazione della possibilità
stessa della condanna eterna: l'Inferno sarebbe un "concetto (...)
teologicamente indegno, logicamente inconsistente, moralmente deprecabile"
(312). Convinzione della fede cattolica è al contrario che senza
l'Inferno l'amore stesso di Dio risulterebbe inconsistente, perché
non si darebbe alcuna possibilità di una libera risposta della creatura.
"Chi ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te":
il giudizio di Agostino richiama la responsabilità di ciascuno di
fronte al suo destino eterno.
L'insieme di queste tesi si rifà a un'opzione profonda, che emerge
da molte delle pagine del libro: quella che non esiterei a definire una
"gnosi" di ritorno,
presentata nella forma di un linguaggio rassicurante e consolatorio, da
cui molti oggi si sentono attratti. "Io penso - afferma l'autore -
che l'esercizio della ragione sia l'unica condizione perché il discorso
su Dio oggi possa sussistere legittimamente come discorso sulla verità"
(315). Il problema è di quale ragione si parla: quella totalizzante
della modernità, che ha prodotto tanta violenza nelle sue espressioni
ideologiche? O quella che il Logos creatore ha impresso come immagine divina
nella creatura capax Dei? E se di questa si tratta, come si può assolutizzarla
fino al punto da ritenere superfluo ogni intervento dall'alto, quasi che
il lumen rationis escluda il bisogno del lumen fidei? Cristo sarebbe venuto
invano? E la fragilità del pensare e dell'agire umano sarebbe inganno,
perché nessuna debolezza originaria degli eredi del primo Adamo si
opporrebbe alla potenza di una ragione ordinatamente applicata? Ben altro
dice la testimonianza di Paolo, alla quale non può non attenersi
una teologia, che voglia dirsi cristiana, preferendola a ogni illusoria
apoteosi della ragione prigioniera di sé: "Sono stato crocifisso
con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa
vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato
e ha dato se stesso per me. Non annullo dunque la grazia di Dio; infatti
se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano"
(Galati, 2, 20-22). Dalla legge, da qualunque legge di autoredenzione, la
salvezza non viene. Senza il dono dall'alto, nessuna salvezza è veramente
possibile. Sta qui la verità della fede, il suo scandalo: proprio
così, la sua potenza di liberazione, la sua offerta della via unica
e vera per "salvarsi l'anima". Pensare
diversamente, non è teologia cristiana: è "gnosi",
pretesa di salvarsi da sé.