Zenit 02/12/2006
“Inchieste moderne su Gesù di Nazareth”
Di padre Raniero Cantalamesa, OFM Cap.
ROMA, domenica, 2 dicembre 2006 (ZENIT.org <http://www.zenit.org/> ).- Pubblichiamo
il commento che padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., ha inviato a ZENIT
sul libro pubblicato da Corrado Augias e Mauro Pesce intitolato “Inchiesta
su Gesù” (Mondadori, 2006).
Predicatore del Papa dal 1980, padre Cantalamessa è stato in precedenza
professore di Storia delle Origini Cristiane all’Università Cattolica
di Milano, nonché membro della Commissione Teologica Internazionale.
1. Nella scia del ciclone
Il ciclone “Il Codice da Vinci” di Dan Brown non è passato invano. Sulla
sua scia stanno fiorendo, come sempre avviene in questi casi, nuovi studi
sulla figura di Gesú di Nazareth con l’intenzione di svelarne il vero volto
ricoperto finora sotto la coltre dell’ortodossia ecclesiastica. Anche chi
ne prende a parole le distanze, se ne mostra per più versi influenzato.
A tale filone appartiene in Italia il libro di Corrado Augias e Mauro Pesce,
un giornalista di fama e uno storico di mestiere, Inchiesta su Gesú (Mondadori,
2006). Esso si presta per una valutazione globale di tutta la letteratura
sul “vero Gesú della storia” che viene pubblicata a gettito continuo in
Europa e in America e continua a ispirare romanzi, film e spettacoli. Lo
prendo in esame con l’intento di fare un po’ di chiarezza sull’intera questione,
in nome di quella “Storia delle origini cristiane” che ho insegnato per
anni all’Università Cattolica di Milano.
Vi sono, come è naturale, differenze tra l’uno e l’altro autore, tra il
giornalista e lo storico. Ma non voglio cadere io stesso nell’errore che
più di ogni altro compromette a mio parere questa “inchiesta” su Gesú che
è di tener conto solo e sempre delle differenze tra gli evangelisti, mai
delle convergenze. Parto perciò da ciò che è comune ai due autori, Augias
e Pesce. Esso si può riassumere così: Sono esistiti, all’inizio, non uno
ma diversi cristianesimi. Una delle sue versioni ha preso il sopravvento
sulle altre; ha stabilito, secondo il proprio punto di vista, il canone
delle Scritture e si è imposta come ortodossia, relegando le altre al rango
di eresie e cancellandone il ricordo. Noi possiamo però oggi, grazie a nuove
scoperte di testi e a una rigorosa applicazione del metodo storico, ristabilire
la verità e presentare finalmente Gesú di Nazareth per quello che fu veramente
e che egli stesso intese essere, cioè una cosa totalmente diversa da quello
che le varie chiese cristiane hanno finora preteso che fosse.
Nessuno contesta il diritto di accostarsi alla figura di Cristo da storici,
prescindendo dalla fede della Chiesa. È quello che la critica, credente
e non credente, va facendo da almeno tre secoli con gli strumenti più raffinati.
La domanda è se la presente inchiesta su Gesú raccoglie davvero, per quanto
in forma divulgativa e accessibile al gran pubblico, il frutto di questo
lavoro, o se invece opera in partenza una scelta drastica all’interno di
esso, finendo per essere una ricostruzione di parte.
Io credo che, purtroppo, questo secondo è il caso. Il filone scelto è quello
che va da Reimarus, a Voltaire, a Renan, a Brandon, a Hengel, e oggi a critici
letterari e “professori di umanità”, quali Harold Bloom e Elaine Pagels.
Del tutto assente l’apporto della grande esegesi biblica, protestante e
cattolica, sviluppatasi nel dopo guerra, in reazione alle tesi di Bultmann,
molto più positiva circa possibilità di attingere, attraverso i vangeli,
il Gesú della storia.
Sui racconti della passione e morte di Gesú, per fare un esempio, nel 1998,
è stata pubblicata da Raymond Brown (“il più distinto tra gli studiosi americani
del Nuovo Testamento, con pochi rivali a livello mondiale”, secondo il New
York Times), un’opera di 1608 pagine. Essa è stata definita dagli specialisti
del settore “il metro in base al quale ogni futuro studio della Passione
sarà misurato”, ma di tale studio non c’è traccia nel capitolo dedicato
ai motivi della condanna e della morte di Cristo, né esso figura nella bibliografia
finale che pure riporta diversi titoli di opere in inglese.
All’uso selettivo degli studi corrisponde un uso altrettanto selettivo delle
fonti. I racconti evangelici sono adattamenti posteriori quando smentiscono
la propria tesi, sono storici quando si accordano con essa. Anche la risurrezione
di Lazzaro, benché attestata dal solo Giovanni, viene presa in considerazione,
se può servire a fondare la tesi della motivazione politica e di ordine
pubblico dell’arresto di Gesù (pag. 140).
2. Ma gli apocrifi cosa dicono?
Ma veniamo alla discussione più diretta della tesi di fondo del libro. Anzitutto
a proposito delle scoperte di nuovi testi che avrebbero modificato il quadro
storico sulle origini cristiane. Esse sono essenzialmente alcuni vangeli
apocrifi scoperti in Egitto a metà del secolo scorso, soprattutto i codici
di Nag Hammadi. Su di essi viene fatta un’operazione assai sottile: ritardare
il più possibile la data di composizione dei vangeli canonici e avanzare
il più possibile la data di composizione degli apocrifi in modo da poterli
usare come valide fonti alternative ai primi. Ma qui si urta contro un muro
non facilmente scavalcabile: nessun vangelo canonico (neppure quello di
Giovanni secondo la critica moderna) si lascia datare dopo l’anno 100 dopo
Cristo e nessun apocrifo si lascia datare prima di tale anno. (I più arditi
arrivano, con congetture, a datarli all’inizio del III o a metà del II secolo).
Tutti gli apocrifi attingono o suppongono i vangeli canonici; nessun vangelo
canonico attinge o suppone un vangelo apocrifo. Per fare l’esempio oggi
più in voga, dei 114 detti di Cristo nel Vangelo copto di Tommaso, 79 hanno
un parallelo nei Sinottici, 11 sono varianti delle parabole sinottiche.
Solo tre parabole non sono attestate altrove.
Augias, sulla scia di Eliana Pagels, crede di poter superare questo scarto
cronologico tra i Sinottici e il Vangelo di Tommaso ed è istruttivo vedere
in che modo. Nel vangelo di Giovanni si assiste, secondo l’autore, a un
chiaro tentativo di screditare l’apostolo Tommaso, una vera persecuzione
nei suoi confronti, paragonabile a quella contro Giuda. Prova: l’insistenza
sulla incredulità di Tommaso! Ipotesi: l’autore del Quarto Vangelo non vuole
per caso screditare le dottrine che già a suo tempo circolavano sotto il
nome dell’apostolo Tommaso e che confluiranno in seguito nel vangelo che
porta il suo nome? Così è superato lo scarto cronologico. Si dimentica,
in questo modo, che l’evangelista Giovanni mette proprio sulla bocca di
Tommaso la più commovente dichiarazione di amore a Cristo (“Andiamo anche
noi a morire con lui”) e la più solenne professione di fede in lui: “Mio
Signore e mio Dio!” che, a detta di molti esegeti, costituisce il coronamento
di tutto il suo vangelo. Se è un perseguitato dai vangeli canonici Tommaso,
che dire del povero Pietro con tutto quello che riferiscono sul suo conto!
A meno che non sia avvenuto, anche nel suo caso, per screditare i futuri
apocrifi che portano il suo nome…
Ma il punto principale non è neppure quello della data, è quello dei contenuti
dei vangeli apocrifi. Essi dicono esattamente il contrario di quello per
cui si invoca la loro autorità. I due autori sostengono la tesi di un Gesú
pienamente inserito nell’ebraismo, che non ha inteso innovare in nulla rispetto
ad esso, ma i vangeli apocrifi professano tutti, chi più chi meno, una rottura
violenta con l’Antico Testamento, facendo di Gesú il rivelatore di un Dio
diverso e superiore. La rivalutazione della figura di Giuda nel vangelo
omonimo si spiega in questa logica: con il suo tradimento, egli aiuterà
Gesú a liberarsi dell’ultimo residuo del Dio creatore, il corpo! Gli eroi
positivi dell’Antico Testamento diventano negativi per loro e quelli negativi,
come Caino, positivi.
Gesú è presentato nel libro come un uomo che solo la Chiesa posteriore ha
elevato al rango di Dio; i vangeli apocrifi al contrario presentano un Gesú
che è vero Dio, ma non vero uomo, avendo rivestito solo l’apparenza di un
corpo (docetismo). Per essi, ciò che fa difficoltà non è la divinità di
Cristo ma la sua umanità. Si è disposti a seguire i vangeli apocrifi su
questo loro terreno?
Si potrebbe allungare la lista degli equivoci nell’uso dei vangeli apocrifi.
Dan Brown si basa su di essi per avallare l’idea di un Gesú che esalta il
principio femminile, non ha problemi con il sesso, sposa la Maddalena…E
per provare questo si appoggia al Vangelo di Tommaso dove si dice che, se
vuole salvarsi, la donna deve cessare di essere donna e diventare uomo!
Il fatto è che i Vangeli apocrifi, in particolare quelli di matrice gnostica,
non sono stati scritti con l’intento di narrare fatti o detti storici su
Gesú, ma per veicolare una certa visione di Dio, di se stessi e del mondo,
di natura esoterica e gnostica. Fondarsi su di essi per ricostruire la storia
di Gesú è come fondarsi su Così parlò Zaratustra non per conoscere il pensiero
di Nietzsche, ma quello di Zaratustra. Per questo in passato, pur essendo
quasi tutti già noti, almeno in ampi stralci, nessuno aveva mai pensato
di potere usare i vangeli apocrifi come fonti di informazioni storiche su
Gesú. Solo la nostra era mediatica, alla ricerca esasperata di scoop commerciali,
lo sta facendo.
Ci sono certo fonti storiche su Gesú al di fuori dei vangeli canonici ed
è strano che esse siano lasciate praticamente fuori di questa “inchiesta”.
La principale è Paolo che scrive meno di trent’anni dopo la scomparsa di
Cristo e dopo essere stato un suo fiero oppositore. La sua testimonianza
viene solo discussa a proposito della risurrezione, ma per essere naturalmente
screditata. Eppure, cosa c’è di essenziale nella fede e nei “dogmi” del
cristianesimo che non si trovi già attestato (nella sua sostanza se non
nella forma), in Paolo, prima cioè che esso abbia avuto il tempo di assorbire
elementi estranei? Si può, per esempio, definire non storico e frutto della
preoccupazione posteriore di non allarmare l’autorità romana il contrasto
tra Gesú e i farisei e la stessa mentalità legalistica di un gruppo di essi,
senza tener conto di quello che dice Paolo che era stato uno di essi e che
proprio per questo aveva perseguitato accanitamente i cristiani? Ma su questo
tornerò più avanti parlando della storia della Passione.
3. Gesú: un ebreo, un cristiano, o tutte e due le cose?
Vengo ora al punto principale condiviso dai due autori. Gesú è stato un
ebreo, non un cristiano; non ha inteso fondare nessuna nuova religione;
si è considerato mandato solo per gli ebrei, non anche per i pagani; “Gesú
è molto più vicino agli ebrei religiosi di oggi che non ai sacerdoti cristiani”;
il cristianesimo “nasce addirittura nella seconda metà del II secolo”.
Come conciliare quest’ultima affermazione con la notizia degli Atti (11,26)
secondo cui, non più di sette anni dopo la morte di Cristo, circa l’anno
37, “ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani”?
Plinio il Giovane (una fonte non sospetta!), tra il 111 e il 113 parla ripetutamente
dei “cristiani”, di cui descrive la vita, il culto e la fede in Cristo “come
in un Dio”. Intorno agli stessi anni, Ignazio d’Antiochia parla per ben
cinque volte di cristianesimo come distinto dal giudaismo, scrivendo: “Non
è il cristianesimo che ha creduto nel giudaismo, ma il giudaismo che ha
creduto nel cristianesimo” (Lettera ai Magnesiani 10, 3). In Ignazio, cioè
all’inizio del II secolo, non troviamo attestati solo i nomi “cristiano”
e “cristianesimo”, ma anche il contenuto di essi: fede nella piena umanità
e divinità di Cristo, struttura gerarchica della Chiesa (vescovi, presbiteri,
diaconi), perfino un primo chiaro accenno al primato del vescovo di Roma,
“chiamato a presiedere nella carità”.
Prima ancora, del resto, che entrasse nell’uso comune il nome di cristiani,
i discepoli erano coscienti della identità propria e la esprimevano con
termini come “i credenti in Cristo”, “quelli della via”, o “quelli che invocano
il nome del Signore Gesù”.
Tra le affermazioni dei due autori che ho appena riportate ce n’è una che
merita di essere presa sul serio e discussa a parte. “Gesú non ha inteso
fondare nessuna nuova religione. Era ed è rimasto ebreo”. Verissimo, difatti
neanche la Chiesa, a rigore, considera il cristianesimo una “nuova” religione.
Si considera insieme con Israele (una volta si diceva a torto “al posto
di Israele”) l’erede della religione monoteistica dell’Antico Testamento,
adoratori dello stesso Dio “di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”. (Dopo il
Concilio Vaticano II, il dialogo con l’Ebraismo non è portato avanti dall’organismo
vaticano che si occupa del dialogo tra le religioni, ma di quello che si
occupa dell’unità dei cristiani!). Il Nuovo Testamento non è un inizio assoluto,
è il “compimento” (categoria fondamentale) dell’Antico. Del resto, nessuna
religione è nata perché qualcuno ha inteso “fondarla”. Forse Mosè aveva
inteso fondare la religione d’Israele o Budda il Buddismo? Le religioni
nascono e prendono coscienza di sé in seguito, da coloro che hanno raccolto
il pensiero di un Maestro e ne hanno fatto ragione di vita.
Ma fatta questa precisazione, si può dire che nei vangeli non c’è nulla
che faccia pensare alla convinzione di Gesú di essere portatore di un messaggio
nuovo? E le sue antitesi: “Avete inteso che fu detto…, ma io vi dico” con
le quali reinterpreta perfino i dieci comandamenti e si pone sullo stesso
piano di Mosè? Esse riempiono tutta una sezione del vangelo di Matteo (5,
21-48), cioè di quel medesimo evangelista su cui si fa leva, nel libro,
per affermare la piena ebraicità di Cristo!
4. Venuto per gli ebrei, per i pagani, o per tutti e due?
Gesú aveva l’intenzione di dare vita a una sua comunità e prevedeva che
la sua vita e il suo insegnamento avrebbero avuto un seguito? Il fatto indiscutibile
dell’elezione dei dodici apostoli sembra proprio indicare di sì. Anche lasciando
da parte la grande commissione: “Andate in tutto il mondo, predicate il
vangelo ad ogni creatura” (qualcuno potrebbe attribuirla, nella sua formulazione,
alla comunità post-pasquale), non si spiegano diversamente tutte quelle
parabole, il cui nucleo originario contiene proprio la prospettiva di un
allargamento alle genti. Si pensi alla parabola dei vignaioli omicidi, degli
operai nella vigna, al detto sugli ultimi che saranno i primi, sui molti
che “verranno dall’oriente e dall’occidente per sedersi a mensa con Abramo”,
mentre altri ne saranno esclusi e innumerevoli altri detti…
Durante la sua vita Gesú non è uscito dalla terra d’Israele, eccetto qualche
breve puntata nei territori pagani del Nord, ma questo si spiega con la
sua convinzione di essere mandato anzitutto per Israele, per poi spingerlo,
una volta convertito, ad accogliere nel suo seno tutte le genti, secondo
le prospettive universalistiche annunciate dai profeti. È molto curioso:
c’è tutto un filone del pensiero ebraico moderno (F. Rosenzweig, H. J. Schoeps,
W. Herberg) secondo cui Gesú non sarebbe venuto per gli ebrei, ma solo per
i gentili; secondo Augias e Pesce egli sarebbe invece venuto solo per gli
ebrei, e non per i gentili.
Va dato merito a Pesce che non accetta di liquidare la storicità dell’istituzione
dell’Eucaristia e la sua importanza nella primitiva comunità. Qui è uno
dei punti dove più emerge l’inconveniente segnalato all’inizio di tener
conto solo delle differenze, e non delle convergenze. I tre Sinottici e
Paolo unanimemente attestano il fatto quasi con le stesse parole, ma per
Augias questo conta meno del fatto che l’istituzione è taciuta da Giovanni
e che, nel riferirla, Matteo e Marco abbiamo “Questo è il mio sangue”, mentre
Paolo e Luca hanno “Questo è il calice della nuova alleanza nel mio sangue”.
La parola di Cristo: “Fate questo in memoria di me”, pronunciata in tale
occasione, si richiama a Esodo 12, 14 e mostra l’intenzione di dare al “memoriale”
pasquale un nuovo contenuto. Non per nulla di lì a poco Paolo parlerà della
“nostra Pasqua” (1 Cor 5, 7), distinta da quella dei giudei. Se all’Eucaristia
e alla Pasqua si aggiunge il fatto incontrovertibile dell’esistenza di un
battesimo cristiano fin dall’indomani della Pasqua che progressivamente
sostituisce la circoncisione, abbiamo gli elementi essenziali per parlare,
se non di una nuova religione, di un modo nuovo di vivere la religione d’Israele.
Quanto al canone delle Scritture, è vero ciò che afferma Pesce (pag. 16)
che l’elenco definitivo degli attuali ventisette libri del Nuovo Testamento
viene fissato solo con Atanasio nel 367, ma non si dovrebbe tacere il fatto
che il suo nucleo essenziale, composto dai quattro vangeli più tredici lettere
paoline, è molto più antico; si è formato verso l’anno 130 e alla fine del
II secolo gode ormai della stessa autorità dell’Antico Testamento (frammento
Muratoriano).
“Anche Paolo, come Gesú – si dice –, non è un cristiano, ma un ebreo che
rimane nell’ebraismo”. Anche questo è vero; non dice forse lui stesso: “Sono
ebrei? Anch’io! Anzi io più di loro!”? Ma questo non fa che confermare ciò
che ho appena rilevato sulla fede in Cristo come “compimento” della legge.
Per un verso Paolo si sente nel cuore stesso di Israele (del “resto di Israele”,
preciserà egli stesso), per l’altro si distacca da esso (dall’ebraismo del
suo tempo) con il suo atteggiamento verso la legge e la sua dottrina della
giustificazione mediante la grazia. Sulla tesi di un Paolo “ebreo e non
cristiano”, sarebbe interessante sentire cosa ne pensano gli stessi ebrei
…
5. Responsabile della sua morte: il Sinedrio, Pilato, o tutti e due?
Merita una discussione a parte il capitolo del libro di Corrado Augias e
Mauro Pesce sul processo e la condanna di Cristo. La tesi centrale non è
nuova; ha cominciato a circolare in seguito alla tragedia della Shoa ed
è stata adottata da quelli che propugnavano negli anni Sessanta e Settanta
la tesi di un Gesú zelota e rivoluzionario. Secondo essa, la responsabilità
della morte di Cristo ricade principalmente, anzi forse esclusivamente,
su Pilato e l’autorità romana, il che indica che la sua motivazione è più
di ordine politico che religioso. I vangeli hanno scagionato Pilato e accusato
di essa i capi dell’ebraismo per tranquillizzare le autorità romane sul
loro conto e farsele amiche.
Questa tesi è nata da una preoccupazione giusta che tutti oggi condividiamo:
togliere alla radice ogni pretesto all’antisemitismo che tanto male ha procurato
al popolo ebraico da parte dei cristiani. Ma il torto più grave che si può
fare a una causa giusta è quello di difenderla con argomenti sbagliati.
La lotta all'antisemitismo va posta su un fondamento più solido che una
discutibile (e discussa) interpretazione dei racconti della Passione. L'estraneità
del popolo ebraico, in quanto tale, alla responsabilità della morte di Cristo
riposa su una certezza biblica che i cristiani hanno in comune con gli ebrei,
ma che purtroppo per tanti secoli è stata stranamente dimenticata: "Colui
che ha peccato deve morire. Il figlio non sconta l'iniquità del padre, né
il padre l'iniquità del figlio" (Ez 18,20). La dottrina della Chiesa conosce
un solo peccato che si trasmette per eredità di padre in figlio, il peccato
originale, nessun altro.
Messo al sicuro il rifiuto dell'antisemitismo, vorrei spiegare perché non
si può accettare la tesi della totale estraneità delle autorità ebraiche
alla morte di Cristo e quindi della natura essenzialmente politica di essa.
Paolo, nella più antica delle sue lettere, scritta intorno all'anno 50,
dà, della condanna di Cristo, la stessa fondamentale versione dei vangeli.
Dice che i “giudei hanno messo a morte Gesú” (1 Ts 2,15), e sui fatti accaduti
a Gerusalemme poco tempo prima del suo arrivo in città egli doveva essere
informato meglio di noi moderni, avendo, un tempo, approvato e difeso “accanitamente”
la condanna del Nazareno.
Durante questa fase più antica il cristianesimo si considerava ancora destinato
principalmente a Israele; le comunità nelle quali si erano formate le prime
tradizioni orali confluite in seguito nei vangeli erano costituite in maggioranza
da giudei convertiti; Matteo, come notano anche Augias e Pesce, è preoccupato
di mostrare che Gesù è venuto a compiere, non ad abolire, la legge. Se c'era
dunque una preoccupazione apologetica, questa avrebbe dovuto indurre a presentare
la condanna di Gesù come opera piuttosto dei pagani che delle autorità ebraiche,
al fine di rassicurare i giudei di Palestina e della diaspora sul conto
dei cristiani.
D'altra parte, quando Marco e, sicuramente, gli altri evangelisti scrivono
il loro vangelo c'è stata già la persecuzione di Nerone; ciò avrebbe dovuto
spingere a vedere in Gesù la prima vittima del potere romano e nei martiri
cristiani coloro che avevano subito la stessa sorte del Maestro. Se ne ha
una conferma nell'Apocalisse, scritta dopo la persecuzione di Domiziano,
dove Roma è fatta oggetto di una invettiva feroce ("Babilonia", la "Bestia",
la "prostituta") a causa del sangue dei martiri (cf. Ap. 13 ss.). Pesce
ha ragione di scorgere una “tendenza antiromana” nel vangelo di Giovanni
(pag. 156), ma Giovanni è anche quello che più accentua la responsabilità
del Sinedrio e dei capi ebrei nel processo a Cristo: come si concilia la
cosa?
Non si possono leggere i racconti della Passione ignorando tutto ciò che
li precede. I quattro vangeli attestano, si può dire a ogni pagina, un contrasto
religioso crescente tra Gesù e un gruppo influente di giudei (farisei, dottori
della legge, scribi) sull'osservanza del sabato, sull'atteggiamento verso
i peccatori e i pubblicani, sul puro e sull'impuro. Jeremias ha dimostrato
la motivazione antifarisaica presente in quasi tutte le parabole di Gesù.
Il dato evangelico è tanto più credibile in quanto il contrasto con i farisei
non è affatto pregiudiziale e generale. Gesú ha degli amici tra di loro
(uno è Nicodemo); lo troviamo a volte a pranzo in casa di qualcuno di loro;
essi accettano almeno di discutere con lui e di prenderlo sul serio, a differenza
dei Sadducei. Pur non escludendo dunque che la situazione posteriore abbia
influito a calcare ulteriormente le tinte, è impossibile eliminare ogni
contrasto tra Gesú e una parte influente della leadership ebraica del suo
tempo, senza disintegrare completamente i vangeli e renderli storicamente
incomprensibili. L’accanimento del fariseo Saulo contro i cristiani non
era nato dal nulla e non se l’era portato dietro da Tarso!
Una volta però dimostrata l’esistenza di questo contrasto, come si può pensare
che esso non abbia giocato alcun ruolo al momento della resa finale dei
conti e che le autorità ebraiche si siano decise a denunziare Gesù a Pilato
unicamente per paura di un intervento armato dei romani, quasi a malincuore?
Pilato non era certo una persona sensibile a ragioni di giustizia, tale
da preoccuparsi della sorte di un ignoto giudeo; era un tipo duro e crudele,
pronto a stroncare nel sangue ogni minimo indizio di rivolta. Tutto ciò
è verissimo. Egli però non tenta di salvare Gesù per compassione verso la
vittima, ma solo per un puntiglio contro i suoi accusatori, con i quali
era in atto una guerra sorda fin dal suo arrivo in Giudea. Naturalmente,
questo non diminuisce affatto la responsabilità di Pilato nella condanna
di Cristo, che ricade su di lui non meno che sui capi ebrei.
Non è il caso, oltre tutto, di volere essere “più ebrei degli ebrei”. Dalle
notizie sulla morte di Gesù, presenti nel Talmud e in altre fonti giudaiche
(per quanto tardive e storicamente contraddittorie), emerge una cosa: la
tradizione ebraica non ha mai negato una partecipazione delle autorità religiose
del tempo alla condanna di Cristo. Non ha fondato la propria difesa negando
il fatto, ma semmai negando che il fatto, dal punto di vista ebraico, costituisse
reato e che la sua condanna sia stata una
condanna ingiusta. Una versione, questa, compatibile con quella delle fonti
neotestamentarie che, mentre, da una parte, mettono in luce la partecipazione
delle autorità ebraiche (dei sadducei forse più ancora che dei farisei)
alla condanna di Cristo, dall'altra spesso la scusano, attribuendola a ignoranza
(cf. Lc 23,34; Atti 3, 17; 1 Cor 2,8). È il risultato a cui giunge anche
Raymond Brown, nel suo libro di 1608 pagine su “La morte del Messia”.
Una nota marginale, ma che tocca un punto assai delicato. Secondo Augias,
Luca attribuisce a Gesú le parole: “E quei miei nemici che non volevano
che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me” (Lc 19,
27) e commenta dicendo che: “è a frasi come queste che si rifanno i sostenitori
della ‘guerra santa’ e della lotta armata contro i regimi ingiusti”. Va
precisato che Luca non attribuisce tali parole a Gesú, ma al re della parabola
che sta narrando e si sa che non si possono trasferire di peso dalla parabola
alla realtà tutti i dettagli del racconto parabolico, e in ogni caso essi
vanno trasferiti dal piano materiale a quello spirituale. Il senso metaforico
di quelle parole è che accettare o rifiutare Gesú non è senza conseguenze;
è una questione di vita o di morte, ma vita e morte spirituale, non fisica.
La guerra santa non c’entra proprio.
6. Un bilancio
È ora di chiudere questa mia lettura critica con qualche riflessione conclusiva.
Io non condivido molte risposte di Pesce, ma le rispetto riconoscendo ad
esse pieno diritto di cittadinanza in una ricerca storica. Molte di esse
(sull’atteggiamento di Gesú verso la politica, i poveri, i bambini, l’importanza
della preghiera nella sua vita) sono anzi illuminanti. Alcuni dei problemi
sollevati – il luogo di nascita di Gesú, la questione dei fratelli e delle
sorelle di lui”, il parto verginale –, sono oggettivi e discussi anche tra
gli storici credenti (l’ultimo non tra i cattolici), ma non sono i problemi
con cui sta o cade il cristianesimo della Chiesa.
Meno giustificata in una “inchiesta” storica su Gesú mi sembra la cura con
cui Augias raccoglie tutte le insinuazioni su presunti legami omosessuali
esistenti tra i discepoli, o tra lui stesso e “il discepolo che egli amava”
(ma non doveva essere innamorato della Maddalena?), come pure la dettagliata
descrizione delle vicende scabrose di alcune donne presenti nella genealogia
di Cristo. Dall’inchiesta su Gesú si ha l’impressione che si passi a volte
al pettegolezzo su Gesú. Il fenomeno ha però una spiegazione. È sempre esistita
la tendenza a rivestire Cristo dei panni della propria epoca o della propria
ideologia. In passato, per quanto discutibili, erano cause serie e di grande
respiro: il Cristo idealista, socialista, rivoluzionario…La nostra epoca,
ossessionata dal sesso, non riesce a pensarlo che alle prese con problemi
sentimentali.
Io credo che il fatto di aver messo insieme una visione di taglio giornalistico
dichiaratamente alternativa con una visione storica anch’essa radicale e
minimalista ha portato a un risultato d’insieme inaccettabile, non solo
per l’uomo di fede, ma anche per lo storico. A lettura ultimata uno si pone
la domanda: come ha fatto Gesú, che non ha portato assolutamente nulla di
nuovo rispetto all’ebraismo, che non ha voluto fondare nessuna religione,
che non ha fatto nessun miracolo e non è risorto se non nella mente alterata
dei suoi seguaci, come ha fatto, ripeto, a diventare “l’uomo che ha cambiato
il mondo”? Una certa critica parte con l’intenzione di dissolvere i vestiti
messi addosso a Gesú di Nazareth dalla tradizione ecclesiastica, ma alla
fine il trattamento si rivela così corrosivo da dissolvere anche la persona
che c’è sotto di essi.
A forza di dissipare i “misteri” su Gesú per ridurlo a un uomo ordinario,
si finisce per creare un mistero ancora più inspiegabile. Un grande esegeta
inglese parlando della risurrezione di Cristo dice: “L’idea che l’imponente
edificio della storia del cristianesimo sia come un’enorme piramide posta
in bilico su un fatto insignificante è certamente meno credibile dell’affermazione
che l’intero evento – e cioè il dato di fatto più il significato a esso
inerente – abbia realmente occupato un posto nella storia paragonabile a
quello che gli attribuisce il Nuovo Testamento” (Ch. H. Dodd).
La fede condiziona la ricerca storica? Innegabilmente, almeno in una certa
misura. Ma io credo che l’incredulità la condiziona enormemente di più.
Se uno si accosta alla figura di Cristo e ai vangeli da non credente (è
il caso, mi sembra di capire, almeno di Augias) l’essenziale è già deciso
in partenza: la nascita verginale non potrà che essere un mito, i miracoli
frutto di suggestione, la risurrezione prodotto di uno “stato alterato della
coscienza” e così via. Una cosa tuttavia ci consola e ci permette di continuare
a rispettarci a vicenda e a proseguire il dialogo: se ci divide la fede,
ci accomuna in compenso “la buona fede”. In essa i due autori dichiarano
di aver scritto il libro e in essa io assicuro di averlo letto e discusso.
Padre Raniero Cantalamessa
(Già docente di Storia delle origini cristiane
nell’Università Cattolica del S. Cuore)
ZIA06120202