Intervento di monsignor Betori alla Camera sulle proposte
di legge in tema di libertà religiosa
ROMA, mercoledì, 10 gennaio 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il
testo dell’intervento pronunciato da monsignor Giuseppe Betori,
Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), durante
l’audizione informale tenutasi il 9 gennaio alla Camera dei Deputati
e relativa alle proposte di legge C. 36 e C. 134 recanti “Norme
sulla libertà religiosa e abrogazione della legislazione sui culti
ammessi”
Monsignor Betori era accompagnato dal professor Venerando Marano, docente
di diritto ecclesiastico e Direttore dell’Osservatorio giuridico
della stessa CEI.
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Desidero anzitutto esprimere al Presidente della Commissione Affari Costituzionali,
on. Violante, e al relatore, on. Zaccaria, un ringraziamento per il cortese
invito rivolto alla Conferenza Episcopale Italiana a intervenire nell’ambito
dell’indagine conoscitiva per l’esame in sede referente delle
proposte di legge C. 36 Boato e C. 134 Spini, recanti l’identico
titolo “Norme sulla libertà religiosa e abrogazione della
legislazione sui culti ammessi”. A questo invito aderiamo volentieri,
nella convinzione che il dibattito su un tema di così particolare
rilievo e delicatezza richiede un processo di partecipazione democratica
che, in un quadro di effettivo pluralismo e di corretta laicità,
non può non coinvolgere le Chiese e le comunità religiose.
- Il disegno riformatore che le proposte in esame intendono realizzare
deve essere valutato alla luce di alcuni principi ed esigenze che possono
favorire una elaborazione condivisa. In primo luogo si avverte la necessità,
per la Chiesa cattolica chiaramente affermata dalla dichiarazione conciliare
“Dignitatis humanae” e dal successivo magistero, di assicurare
il pieno rispetto della libertà religiosa, esigenza insopprimibile
della dignità di ogni uomo e pietra angolare dell’edificio
dei diritti umani, fattore insostituibile del bene delle persone e di
tutta la società. La garanzia del fondamentale diritto di libertà
religiosa in tutte le sue dimensioni, non ultima quella propriamente
istituzionale, costituisce la condizione per una pacifica convivenza
e per una corretta laicità.
In secondo luogo, si sottolinea la necessità di non alterare
i caratteri costitutivi del sistema costituzionale di disciplina del
fenomeno religioso, nel quale il diritto di libertà religiosa
viene formulato in modo specifico e garantito in tutte le sue manifestazioni
dagli artt. 3, 8 primo comma e 19, e la condizione della Chiesa cattolica
e delle altre confessioni religiose viene riconosciuta e disciplinata
rispettivamente dagli artt. 7 e 8, commi 2 e 3. In questo sistema, l’eguale
libertà di tutte le confessioni religiose di cui all’art.
8, primo comma non implica piena eguaglianza di trattamento ma solo
una eguaglianza in quelle materie e in quei rapporti suscettibili di
incidere sulla libertà delle confessioni. Al di fuori dei diritti
connessi alla eguale libertà (diritto di culto, di propaganda
religiosa, di organizzazione comunitaria) rimane la possibilità
di discipline giuridiche differenziate, come del resto emerge chiaramente
già dal confronto fra l’art. 7, che riconosce la Chiesa
cattolica come ordinamento primario, sovrano e indipendente i cui rapporti
con lo Stato sono regolati in base a un rapporto pattizio di tipo internazionale,
e l’art. 8, che per le confessioni diverse dalla cattolica riconosce
il diritto di organizzarsi secondo i propri statuti “in quanto
non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano” (comma
2) e prevede che i loro rapporti “sono regolati per legge, sulla
base di Intese con le relative rappresentanze” (comma 3).
In terzo luogo, si avverte l’esigenza di non sottovalutare i problemi
connessi alla diffusione anche nel nostro Paese di nuovi movimenti religiosi,
estranei alla tradizione giudaico-cristiana, che provocano diffuse reazioni
di diffidenza e talvolta di allarme sociale. In mancanza di un sicuro
criterio dogmatico idoneo a definire in modo univoco il concetto di
religione e di confessione religiosa, pare opportuno riaffermare che
lo Stato può intervenire legittimamente per negare il riconoscimento
come tali a realtà connotate da caratteri contrastanti con qualsiasi
forma di religiosità ovvero ispirate a principi o dedite a pratiche
che si pongono in contrasto con i diritti fondamentali dell’uomo
e i principi fondanti della convivenza civile.
Da ultimo, si segnala la necessità di non sottovalutare le questioni
legate al fenomeno della intercultura e della multietnicità.
È noto che anche nel nostro Paese hanno iniziato a radicarsi
gruppi sociali portatori di identità diverse rispetto a quelle
tradizionali, che tendono a perpetuare usi e costumi a volte confligenti
con principi e valori fondamentali per la comunità e per l’ordinamento.
Per l’esperienza italiana si tratta di una problematica molto
recente, che era praticamente sconosciuta all’inizio degli anni
’90, quando lo schema originario delle proposte di legge in esame
venne elaborato a chiusura della cosiddetta “stagione delle intese”,
e risultava ancora marginale o comunque meno avvertita quando, nel corso
delle due precedenti legislature, sono stati predisposti e discussi
i testi che sono poi rifluiti senza sostanziali modifiche nelle proposte
oggetto del nostro dibattito. Sarebbe poco lungimirante non tener conto
di questa evoluzione, che di per sé non comporta una radicale
obsolescenza delle proposte in esame né determina l’inopportunità
del proposito riformatore, ma indubbiamente esige una rinnovata prudente
attenzione per l’impostazione e i contenuti delle suddette proposte.
L’esigenza di favorire l’integrazione dei nuovi gruppi e
quindi la pacifica convivenza non deve infatti tradursi in forme di
ingiustificato cedimento di fronte a dottrine e pratiche che suscitano
allarme sociale e contrastano con principi irrinunciabili della nostra
civiltà giuridica.
- In base alle considerazioni svolte, alcune soluzioni adottate nelle
proposte in esame appaiono sostanzialmente condivisibili. Fra queste,
si può richiamare anzitutto la riaffermazione del principio secondo
cui la libertà di coscienza e di religione è garantita
a tutti “in conformità alla Costituzione, alle convenzioni
internazionali sui diritti inviolabili dell’uomo e ai principi
del diritto internazionale internazionalmente riconosciuti”. Un’analoga
valutazione positiva riguarda le disposizioni finali, sia quelle che
prevedono l’abrogazione della legislazione sui culti ammessi (art.
41), sia quelle che riaffermano chiaramente la vigenza degli accordi
in atto tra la Repubblica e la Santa Sede (Concordato) e tra lo Stato
e talune confessioni religiose (Intese) (art. 40). Anche la previsione
di determinazioni procedurali relative alla elaborazione e alla stipulazione
delle intese, contenuta in particolare nel Capo III, risulta elemento
di chiarezza e garanzia di legittimità. A questo riguardo, occorre
evitare il rischio che la legge sulla libertà religiosa –
originariamente ideata anche per arginare la frammentazione del quadro
normativo che deriverebbe da una ingiustificata proliferazione delle
intese – paradossalmente possa essere utilizzata per favorire
proprio un simile esito e, attraverso di esso, un indebito riconoscimento
di realtà che poco o nulla hanno in comune con le confessioni
religiose quali riconosciute e valorizzate nel vigente sistema costituzionale.
In realtà, nel vigente ordinamento costituzionale non è
previsto alcun “diritto all’intesa”, poiché
l’intesa è cosa diversa dalla eguaglianza nella libertà
e non può ritenersi necessitata da quest’ultima, come risulta
chiaramente da una corretta lettura dei commi primo e terzo del richiamato
art. 8 della Costituzione. La garanzia della piena libertà è
dovuta a tutti, e a tutti deve esser offerto il quadro legislativo entro
il quale tale libertà possa esplicarsi in modo certo e sereno;
l’intesa, invece, è frutto di una valutazione correttamente
discrezionale del Governo, il quale può decidere di stipulare
o di non stipulare (salva sempre, poi, la decisione del Parlamento di
approvare o non approvare con legge l’intesa così stipulata).
Perché la discrezionalità non divenga arbitraria occorre
che lo Stato - al di là di ogni autoqualificazione da parte dei
gruppi religiosi - si attenga ad alcuni parametri oggettivi e ragionevoli,
fra i quali possono richiamarsi, a titolo esemplificativo, non solo
il non contrasto degli statuti del gruppo che chiede l’intesa
con l’ordinamento giuridico italiano espressamente previsto dal
comma 2 dell’ art. 8 Cost., ma anche il rispetto dei diritti fondamentali
della persona garantiti dalla Costituzione repubblicana e, più
in generale, la non contrarietà del messaggio di cui la confessione
è portatrice con i valori che esprimono l’identità
profonda della nazione e ispirano il suo quadro costituzionale. Si potrà
inoltre verificare la sua relazione con il quadro socio-culturale e
con la tradizione storica del Paese, la consistenza numerica e il radicamento
territoriale, ecc.
Nel caso in cui alcuni di questi elementi mancassero o fossero insufficienti,
non verrebbe meno il diritto di una confessione o di un gruppo religioso
alla libertà e la possibilità del riconoscimento della
personalità giuridica civile (a ciò osterebbe soltanto
il “contrasto con l’ordinamento giuridico italiano”,
come stabilisce il secondo comma dell’art. 8 Cost. sopra richiamato);
ma, certamente, sarebbe incoerente che lo Stato apprezzasse, per dir
così, in modo specifico e positivo, proprio attraverso la stipulazione
di un’intesa, una realtà in stridente contrasto con gli
indirizzi “politici”, in senso alto, che esso persegue.
Un eventuale intervento legislativo, pertanto, dovrebbe definire un
quadro entro il quale tutti gli interessi che risultano legittimi possano
trovare tutela ma allo stesso tempo assicurare che le oggettive diversità
siano salvaguardate e promosse nell’ottica del bene comune. I
valori del pluralismo, così come non postulano una sorta di “livellamento
al basso” quale unica possibilità per garantirne il rispetto,
analogamente non esigono certo un’omogeneizzazione verso il massimo
di realtà troppo diverse fra loro. In base a tali considerazioni,
nell’art. 29 sarebbe opportuno sostituire la formula “prima
di avviare le procedure di intesa” con l’espressione “ove
ritenga di avviare”, così come correttamente previsto nel
testo originario del 1990. Una valutazione positiva sembra invece da
esprimere circa l’individuazione del Consiglio di Stato quale
organo chiamato ad esprimere parere circa il riconoscimento della personalità
civile alla confessione religiosa o al rispettivo ente esponenziale
(art. 28), considerato che il Consiglio può contare su una valida
tradizione giurisprudenziale e offre garanzie di imparzialità
e di competenza necessarie nell’esame dei profili giuridicamente
qualificanti la natura e l’attività dell’ente richiedente.
- Altre soluzioni adottate nelle proposte in esame suscitano interrogativi
e sembrano richiedere qualche ulteriore approfondimento. Gli interrogativi
riguardano in particolare il problema dell’estensibilità
di alcune disposizioni contenute nelle proposte in esame alle confessioni
religiose che operano in regime di concordato o di intese, al fine di
evitare nei confronti di quest’ultime disparità di trattamento
in peius certamente non volute né giustificabili. È il
caso ad esempio della disposizione contenuta nell’art. 22, comma
1, che prevede “intese” tra le confessioni interessate e
le autorità competenti per la definizione concreta di interventi
relativi a edifici religiosi, oppure della disposizione contenuta nell’art.
23, che per gli enti delle confessioni prive di accordi o intese con
lo Stato prevede la possibilità di ottenere il riconoscimento
della personalità giuridica “con le modalità ed
i requisiti previsti dalla normativa vigente in materia”. Se con
tale espressione piuttosto generica si intende richiamare la procedura
semplificata prevista per il riconoscimento delle persone giuridiche
private dal d.P.R. n. 361/2000, si avrebbe per gli enti suddetti l’introduzione
di una disciplina più favorevole rispetto a quella attualmente
vigente per gli enti della Chiesa cattolica e delle altre confessioni
che hanno stipulato intese con lo Stato. È noto infatti che,
mentre il citato d.P.R. n. 361/2000 ha introdotto una sorta di automatismo
nel riconoscimento della personalità giuridica, la disciplina
pattizia degli enti della Chiesa cattolica e delle altre confessioni
che hanno stipulato intese con lo Stato prevede invece l’intervento
del Ministro dell’interno (con possibilità di chiedere
il previo parere del Consiglio di Stato) e la specifica verifica del
requisito del fine di religione o di culto o di requisiti ulteriori
richiesti per le singole categorie di enti. Questo sistema risponde
ad una precisa opzione del legislatore bilaterale, ispirata a esigenze
tuzioristiche che, rispetto a pur apprezzabili intenti di semplificazione
procedurale, potrebbero risultare tuttora prevalenti anche (e forse
soprattutto) per gli enti delle confessioni prive di intesa.
L’esigenza di ulteriori approfondimenti riguarda soprattutto la
previsione dell’art. 11, nella parte in cui afferma la possibilità
di scegliere se gli articoli del codice civile riguardanti il matrimonio
siano letti durante il rito o al momento della richiesta delle pubblicazioni.
Questa previsione – che ha suscitato com’è noto un’acceso
dibattito con riferimento soprattutto alla questione del matrimonio
poligamico – nel nostro ordinamento non è nuova, in quanto
già contenuta in alcune intese con confessioni diverse dalla
cattolica, e riguarda propriamente solo le modalità di un adempimento
ma non l'adempimento in sé, che sussiste e produce effetti anche
se realizzato al di fuori della celebrazione religiosa. Essa inoltre
si inserisce in un contesto ordinamentale in cui il matrimonio poligamico
non può essere in alcun modo riconosciuto, in quanto la libertà
di stato è condizione necessaria per contrarre matrimonio (art.
86 cod. civ.) e l’ordinamento punisce il reato di bigamia (art.
556 cod. pen.).
Le perplessità sul punto riguardano quindi non tanto un profilo
di legittimità quanto piuttosto il profilo dell’opportunità,
in quanto la disposizione in esame viene oggi ad essere riferita a una
platea di soggetti confessionali ben più vasta che in passato,
alcuni dei quali professano e praticano di fatto, con convivenze plurime
oppure celebrando più matrimoni religiosi, esperienze di matrimonio
poligamico che sono radicalmente estranee e confligenti col modello
di matrimonio e famiglia proprio della nostra tradizione culturale e
del nostro ordinamento costituzionale e che comportano una grave violazione
della dignità femminile. Il problema, che è reale e non
deve essere sottaciuto o minimizzato per ossequio alle pretese esigenze
di un malinteso multiculturalismo, non può essere ricondotto
né tantomeno giustificato nell’orizzonte della libertà
religiosa, ma può sorgere soprattutto a seguito di normative
e provvedimenti, che, come già avvenuto in alcuni paesi europei,
determinino un fenomeno di rilevanza indiretta della famiglia poligamica,
sia pure circoscritta a taluni determinati effetti (soprattutto in materia
di diritti sociali e di agevolazioni fiscali). Anche sotto questo profilo,
emerge con evidenza la particolare complessità e delicatezza
delle questioni affidate alla responsabilità del legislatore,
chiamato a garantire la libertà religiosa nel quadro di un pieno
sviluppo della persona umana e del rispetto della sua dignità.