G.r.i.s. Gruppo Ricerca Informazione Socio Religiosa Diocesi di Rimini
p. Guglielmo Spirito OFM Conv.
C’è un grande autore irlandese John O’ Donohue che, nel
suo libro Anam Cara, il primo dei suoi libri più famosi,
facendo una sorta di gioco di parole in inglese, dice: “Belonging
is related to longing” (1) , “l’appartenere
è in rapporto con il cercare, con l’essere in cerca”.
Per una vera e sana crescita spirituale basta dividere la parola “
Belonging”: Be-Your-Longing cioè “sii la
tua cerca”. Infatti è seguendo gli aneliti che mettono in moto
il nostro mondo interiore, che potremo recuperare in pienezza chi noi realmente
siamo. Dato che le nostre potenzialità, insite in noi, sono nascoste
anche ai nostri occhi, l’avventura dell’uomo sulla terra è
una continua “cerca”: questo anno 2005 anche l’incontro
dei giovani a Colonia è sotto il segno dei Magi e quindi sintetizza
questo essere in cerca di qualcosa (o di Qualcuno) che possa dare pienezza
alla propria vita. Questo desiderio di fondo è prettamente umano
e assolutamente legittimo e sottostà a tutte le ricerche (sballate
o meno) che si fanno. Anche quando si prende coscienza del doveroso bisogno
di cercare un antidoto allo sbandamento, alla malvagità, alla magia,
alla superstizione, non bisogna dimenticare che chi ricerca quelle vie,
nonostante siano vicoli senza uscita, sta rispondendo ad un bisogno legittimo
di ricerca.
Qualche anno fa nella lettera enciclica Redemptoris missio Giovanni
Paolo II diceva:
Il nostro tempo è drammatico e insieme affascinante. Mentre da un lato gli uomini sembrano rincorrere la prosperità materiale e immergersi sempre più nel materialismo consumistico, dall'altro si manifestano l'angosciosa ricerca di significato, il bisogno di interiorità, il desiderio di apprendere nuove forme e modi di concentrazione e di preghiera [... ] questo fenomeno del «ritorno religioso» non è privo di ambiguità, ma contiene anche un invito .(2)
Non è mancato chi lo aveva già previsto:
Romano Guardini descrivendo l’epoca moderna aveva già intuito il prossimo verificarsi di una metamorfosi religiosa. Dopo il cristianesimo, annotava, si sarebbe affacciato in Europa un nuovo politeismo pagano nel quale nuovi dei avrebbero preso il posto degli antichi e nuove forme di credenza e di fanatismo avrebbero sconvolto il mondo. Egli si riferiva all'ideologia nazista e alla sua caratterizzazione religiosa con simboli e formule ben precise che scimmiottavano la croce e il Santo, ma in qualche modo spingeva lo sguardo anche oltre i suoi giorni. Intravedeva fra le conseguenze della modernità l'avvento di un nuovo paganesimo che di fatto si è realmente affermato. Non si tratta più del culto religioso dell'antichità, quanto piuttosto di un nuovo sentimento entusiastico e politeistico, la cui collocazione dopo Cristo lo rende oltre modo inquietante. L'antica credenza negli elementi del mondo e in figure prodotte dal desiderio umano di sicurezza e senso era il segno indelebile di un'attesa. Attestava il bisogno dell'uomo di incontrare Dio e prefigurava il salvatore. Il neopaganesimo contemporaneo, invece, è regressivo - prendendo in prestito una terminologia tipica della psicologia. Esso intende debellare la forza stravolgente del vangelo e annullare la pretesa di Gesù Figlio di Dio, senza polemiche accese e senza scontri frontali, ma semplicemente riconquistando l'uomo a partire dalla sfera delle emozioni e sapendo ad arte manipolare il bisogno di senso e di autorealizzazione. (3)
Stava iniziando a prodursi una sorta di metamorfosi religiosa nell’occidente nel senso più vasto e questo fenomeno si è acutizzato in questi ultimi anni: i cuori sono come allo sbando dato che sono venute meno tutte le certezze, le ideologie e viene fuori un po’ di tutto. Però l’urgenza di questo desiderio di pienezza di interiorità e di senso è sempre più forte.
Per la Chiesa l’ostacolo maggiore per l’annuncio può essere quello di rivolgersi a persone che non sanno di aver bisogno di qualcosa: non c’è cosa peggiore che voler aiutare chi non crede di aver bisogno d’aiuto. (4)
Un problema è che moltissimi dei nostri contemporanei
non sono pienamente consapevoli di aver bisogno di qualcosa, cercano, ma
non sanno esattamente cosa stanno cercando e soprattutto non sanno come
cercare. Essendo pienamente diffusa la mentalità consumistica del
fai-da-te e del super market, si fa il self-service, si diventa tanti Robinson
Crusoe . Per plasmarsi come uomo e per raggiungere la felicità è
molto pericoloso immaginare che uno ha le potenzialità di iniziare
da zero o che uno può essere maestro di se stesso. Però nel
post-moderno,(5) con il pensiero debole, di veri maestri
sembra che ce ne siano davvero pochi, mentre i bisogni sono così
acuti che ognuno fa quello che vuole. La grande galassia del New age risponde,
forse male, ma risponde, a questo bisogno.
Una cosa preoccupante in questa forma di ricerca diffusa è che il
problema del male, della sofferenza e della morte non vengono mai apertamente
trattati, vengono molto soavemente dribblati, attutiti in una maniera molto
soft.
Dietro alla larga diffusione di questo miscuglio prepotente di idee che è il New age e che appare così versatile da soddisfare tutte le esigenze, sorge la domanda: come mai nessuno dei simpatizzanti di questa visione del mondo e della divinità si interroga sulla mancanza di una risposta convincente al problema della morte e del male? (6)
Lo scandalo drammatico della parte oscura dell’esistenza o delle pesantezze della vita non viene considerato in questi sistemi di pensiero debole. Nel campo di gente un pochino più consistente, di quelli che si autodefiniscono credenti, risulta che, alle volte, hanno così bene mascherato il proprio Dio, che uno stupendo teologo francese, Oliver Le Genere, in un libro straordinario Le maschere di dio, afferma:
Gli uomini hanno mascherato il loro dio a furia di amarlo male e di amare se stessi con troppo compiacimento. Ritagliato sulla dimensione delle loro preoccupazioni, questo dio ha smesso di sorprenderli. Le parole per parlare di lui si sono ricoperte di uno strato così spesso di polvere e si sono caricate di una tale noia che han finito per essere i più sicuri assassini di colui per il quale erano state inventate. II dio nel quale il non credente non crede e il dio nel quale il credente crede sono pallide copie dell'originale. Sono il risultato del lavoro maldestro di una stirpe di falsari senza genio che, generazione dopo generazione, copista dopo copista, han finito per accumulare una stupefacente collezione di ritratti approssimativi dai colori sbiaditi e dal tratto esitante. Questi dèi, che non amo, finiscono per imprigionare i loro fedeli nella noia. Suscitano conformismo, timore sistematico, abitudine ben radicata. Ispirano sentimenti da padrone ai fedeli che amano più la propria fede del dio cui la rivolgono. (7)
Tutto ciò complica ancora di più le cose. Nonostante questa sorta di nebbia (o perfino di palude), ogni tanto, a chiunque può capitare di sperimentare un momento di nostalgia, di grazia, di vicinanza, di qualche spiraglio di luce e questo dà sempre la possibilità di incentivare quei momenti di luce.
Quei momenti, quando si intuisce che c’è di più, che potrebbe esserci di più. Quei momenti di grazia, quando il cielo è più chiaro; quegli istanti che non sono di nostalgia ma di fremito e di timido tremore. Tremore davanti alla forza che intuisco e che mi tocca con la sua ala, fremito di un richiamo appena udibile, ma così certo nel momento in cui naviga sul silenzio. Certezza del momento ed incertezza del momento seguente che si mescolano e mi lasciano la libertà di crederci o di dubitarne . (8)
Il più sottile filo d’erba su cui brilla la goccia di rugiada mattutina, l’umile muschio che ricopre come un tappeto la pietra, a modo loro, svelano l’essere; permettono di dare uno sguardo, anche se veloce, allo splendore dell’esistente, del reale:
Dovunque io volga lo sguardo, vedo una profusione di
forme che sfugge alla mia comprensione: la dura pietra che tengo nella mano
è un condensato di atomi percorsi da un moto perpetuo; la foglia
della pianta è una straordinaria officina vivente. I fiori di ogni
specie, tutti così fantastici e meravigliosi, per quale motivo ostentano
la loro bellezza? E questo animale che saltella con una leggerezza e una
grazia incomparabili, per chi mostra questa sua esultanza?
Il più sottile filo d'erba su cui brilla la goccia della rugiada
mattutina e l'umile muschio che ricopre come un tappeto la pietra sono altrettante
rivelazioni improvvise e solenni dell'essere. Cos'è questo esistere
in un certo modo e non in un altro, questo crescere, questo fiorire, questo
olezzare, questo moltiplicarsi in modo rigoglioso e lussureggiante? E io
uomo, smarrito in questa foresta di simboli, percepisco in me, intimamente
colpito e stupefatto, il fruscio primordiale della materia e della vita.
Materia così vicina a me, perché io stesso ne sono formato;
così estranea e lontana, perché non riesco a comunicare con
essa. A questa prima e fondamentale esperienza si aggiunge la meraviglia
suscitata dallo splendore, dalla bellezza dei luoghi e dei paesaggi: slancio
e imponenza delle montagne, armonia riposante delle valli e delle colline,
fascino e forza impetuosa dei fiumi e dei mari, ordine ed equilibrio delle
creazioni dell'uomo.
Alzando gli occhi vedo l'impenetrabile azzurro, quando splende il sole,
e di notte, «nel silenzio degli spazi infiniti» (Pascal), lo
scintillio delle stelle e delle galassie. Ciò che raggiunge il mio
sguardo è nulla in confronto a ciò che riescono a concepire
il pensiero e 1'immaginazione. «Se guardo il tuo cielo, opera delle
tue dita.., che cosa è l'uomo? ...» (Sal. 8,4-5). Sì,
che cosa è l'uomo, cosa sono io in questa inimmaginabile immensità
di tenebre e di fuoco, la cui distesa è di miliardi e miliardi di
anni-luce? (9)
C’è stato un prete ortodosso russo, Aleksandr Men’ il
quale, con molta semplicità, aveva sottolineato che il cuore dell’uomo
ha un anelito verso l’alto e non riesce mai a possedere il mistero
e cerca in ogni modo come di creare dei collegamenti che gli permettano
di sentirsi a proprio agio nel mondo e di scendere a patti con questo mondo
misterioso: gli dei sarebbero come gli intermediari di questo patto, di
queste trattative tra l’uomo e il mondo misterioso; certo non è
così che il Dio della rivelazione si rapporterà con l’uomo.
Nonostante la nostra incapacità di possedere il
mistero, nel cuore dell'uomo questo arcano anelito verso l'alto non si è
mai spento. Egli ha sempre cercato di superare la distanza che lo separa
dal cielo, di legare la sua vita con l'«altro» mondo. In conseguenza
di questa contraddizione, nell'umanità continuarono a coesistere
due fedi opposte ma strettamente legate l'una all'altra: la fede nell'Ineffabile
e la fede nelle divinità naturali. Queste ultime parevano essere
più vicine all'uomo, giacché con esse si poteva stabilire
un contatto diretto. Si credeva che esistessero degli strumenti magici per
mezzo dei quali l'uomo poteva influire sui demoni e sugli spiriti. Questa
visione utilitaristica della religione fu certamente quella dominante per
migliaia di anni. Il politeismo e la magia cercavano in questo modo di colmare
il vuoto che separava la terra dal cielo.
Questa contraddizione fu superata per la prima volta dalla rivelazione biblica.
La Bibbia infatti parla di un Dio santo, cioè infinitamente superiore
alla creazione, e parla nel contempo dell'uomo come immagine e somiglianza
di questo Dio. Tale misteriosa parentela tra lo Spirito infinito e uno spirito
finito, secondo la Bibbia, rende possibile un patto, un'alleanza tra essi.
L'alleanza, dunque, è la via di unione dell'uomo non con gli dei,
ma con la stessa Origine trascendente che esiste al di sopra del cosmo.
(10)
In ogni spiegazione del mondo, in ogni cosmogonia, in ogni racconto mitico,
incluso il grandioso, reale mito cristiano, c’è una caduta.
Tanto che Chesterton diceva che la buona notizia del Vangelo consiste nell’annunciare
che c’è stato il peccato originale; ed è una buona notizia,
perché la realtà che conosciamo, in noi, attorno a noi, nella
storia, con tutta la pesantezza e la sofferenza che ha, non è né
il progetto originale per l’esistenza né il destino finale
dell’esistenza.
C’è stata una caduta: il New age questo non lo sa e forse è
l’elemento di miopia o di cecità più grave, perché
il fatto che siamo decaduti da quello che possiamo essere, è una
sorta di dato esperienziale. Ognuno conserva nel cuore come la percezione
di quello che potrebbe dare una felicità compiuta, sogna e, in un
certo modo, percepisce che gli risulterebbe connaturale quell’armonia
e quella perfezione, quindi aspira a qualcosa con una certa nostalgia (11)
come se fosse stato in quel posto, anche se non sa di che cosa specificamente
si tratta, ma allo stesso tempo sperimenta che è fuori dall’armonia.
Nel genere letterario mitico-sapienziale della Genesi (12)
“siamo fuori dal giardino”, dal giardino come punto ideale di
armonia di bellezza… Noi siamo fuori dal giardino e questo è
un dato esperienziale e tutte le fatiche della vita sono come per cercare
di rientrare.
Nel Silmarillion, il corpo mitico che sta dietro Il Signore degli Anelli,
l’inviato di Melkor, il vero signore oscuro, cerca di convincere gli
uomini che in fondo tutti i sogni di fedeltà, di bontà sono
tutte menzogne che imprigionano l’uomo e che la vera libertà
sarà, quando loro riusciranno a staccarsi dalle indicazioni che vengono
da Eru e riconosceranno che la sorgente di tutto è l’oscuro
signore . (13) Questo principio è alla base del
dramma della razza umana: ovviamente questa è una creazione letteraria,
però esprime molto bene la situazione nella quale ci troviamo. Nessuno
di noi qua è compiutamente felice. Nessuna delle stupende filosofie
del periodo imperiale né il neopitagorismo, né il neoepicureismo,
né il neostoicismo, né il neoplatonismo è riuscita
a tranquillizzare il cuore davanti al fatto che non riusciamo ad essere
pienamente felici.
Questo permette di essere ragionevolmente sicuri, anche se uno non fosse credente, dato che è un dato esperienziale che nello spessore del reale c’è una sorta di frattura, che le cose non sono come dovrebbero essere e noi non siamo quanto possiamo essere. Quando una persona è geniale, in qualsiasi campo creativo, riesce ad attingere dal reale tutto quello che lui riproduce, sia in musica, sia in scultura, sia in architettura, poesia, letteratura. Perciò Tolkien ama definirsi sub–creatore: tutta la sua creazione è così splendidamente eloquente ed è così eloquente, appunto, perché semplicemente scaturisce dal reale. (14)
Leggendo Il Signore degli Anelli uno può vedere che le cose sono così anche nel mondo reale, nel mondo primario, come dice lui, tanto quanto sono reali nel mondo secondario, nel mondo della finzione letteraria. Se non fosse così non si capirebbe come mai hanno un successo così stravolgente sia il libro, sia il film: le cose che non c’entrano con la nostra realtà umana, quello che non mi tocca in qualche misura a titolo personale, non mi interessa. Se uno si sente coinvolto, si sente “dentro”, è perché, in qualche misura, mi si sta svelando qualcosa in cui io sono calato completamente. Questa è una delle funzioni straordinarie che ha, tra tante altre facoltà dell’uomo, la fantasia. Quando Dostojeski scriveva che la bellezza salverà il mondo, intendeva anche che la bellezza è di per se terapeutica e, se l’uomo deve essere riconsegnato alla sua piena salute, lo deve essere in tutte le sue facoltà, intelligenza, volontà, memoria, corporeità, ed anche fantasia, perché il nostro modo di rappresentarci interiormente le cose, con le quali poi viviamo, filtrerà molto i nostri sentimenti, le nostre emozioni, le nostre reazioni. Quindi, quando riceviamo un aiuto per risanare anche il nostro mondo immaginifico interiore, abbiamo fatto un passo in avanti, è un supporto per una sanità più integrale. Questa è la valenza terapeutica, ai miei occhi, principale che ha la genialità di Tolkien e che si respira in contatto con la sua opera: è come se il reale rifluisse dentro e ci si sentisse più “energizzati” per la vita reale; non si scappa via in un mondo virtuale, ma, al contrario, si gustano di più le cose. Se questo è vero, cioè che la sub–creazione è efficace e terapeutica appunto perché scaturisce dalla creazione in sè, e che la genialità di Tolkien è così sanante per il nostro mondo che apre o stabilisce un ponte tra la realtà esterna e la nostra capacità percettiva e perfino con la nostra vulnerabilità e fragilità; se lui ha percepito così bene le cose e le trasmette così bene, questo vale, purtroppo, anche per le cose oscure. Non tutto è Lorien ne Il Signore degli Anelli, non tutto il Bosco d’oro dove dimora Galadriel, non tutto è la pacifica Contea (romagnola) dove si mangia bene. Gli elementi di oscurità presenti nel testo, anche quelli, riflettono il reale. Cosa che, normalmente, chi si butta nei giochi di ruolo o cose del genere non percepisce. E’ indubbio che sia stupendo tuffarsi dentro ed è molto bene fare una mangiata Hobbit, non c’è dubbio, ma il realismo delle cose oscure?
A Colle Vento Frodo viene ferito dal pugnale dell’ antico re di Agmar; Aragon trova un pezzo del mantello:
« Guardate! », esclamò, e si chinò per raccogliere un manto nero a terra, nascosto sino allora dall'oscurità. A dieci pollici dall'orlo vi era uno squarcio. « Questo è il colpo di spada di Frodò» disse. « L'unica lesione subita dal nemico, temo; infatti la spada è intatta, mentre tutte le lame che feriscono il corpo di quell'orrendo re vanno in frantumi. Più infausto per lui è stato il nome di Elbereth. E più infausto per Frodo è stato questo! ». Si curvò nuovamente e raccolse un lungo coltello aguzzo. Ardeva di una luce fredda. Quando Grampasso lo tenne in mano, videro che vicino a11’estremità la lama era intaccata e che la punta era rotta. Ma guardandolo meglio, alla luce dell'alba che avanzava, rimasero sbalorditi, perché la lama parve squagliare, e svanì come fumo nell'aria: in mano, Grampasso stringeva ormai solo l'elsa. « Ahimè! », esclamò. « È stato questo maledetto pugnale a provocare la ferita. Pochi sono quelli il cui potere di guarigione può combattere armi sì malefiche. Ma farò ciò che posso ». Si sedette per terra e posò l'elsa del pugnale sulle sue ginocchia, cantandole una lenta canzone in una lingua arcana. Poi la mise da parte e, voltatosi verso Frodo, gli disse in un tono di voce soave delle parole che nessuno capiva. Dalla borsa attaccata alla sua cinta trasse lunghe foglie…. L'erba aveva anche qualche potere sulla ferita, poiché Frodo sentì diminuire il dolore ed anche il senso di freddo glaciale, benché il braccio rimanesse inerte ed egli fosse incapace di alzare o adoperare la mano. Rimpianse amaramente di essersi comportato da sciocco e si rimproverò la propria debolezza: si rendeva conto infatti che infilando l'Anello aveva obbedito non alla propria volontà ma al desiderio dei suoi nemici. (15)
Chiara è la descrizione, che Tolkien fa, dello stato progressivo di malessere di Frodo:
Frodo si gettò per terra, e vi rimase disteso
e tremante. Il suo braccio sinistro era privo di vita, ed il fianco e la
spalla sembravano attanagliati da artigli di ghiaccio. Vedeva gli alberi
e le rocce intorno a lui come annebbiati ed indistinti. (16)
Il dolore di Frodo era raddoppiato, e durante il giorno il mondo intorno
a lui si era sbiadito a tal punto da non costituire altro che un insieme
di ombre di un grigio spettrale. Accolse quasi con sollievo l’arrivo
della notte, perché essa faceva apparire meno pallido e vuoto ciò
che lo circondava. (17)
Pavel Florenskij, uno dei più grandi autori russi del XX secolo, riporta un caso (18) del quale aveva avuto esperienza diretta, ed è una descrizione che somiglia molto a quella di Frodo. Gabriele Amorth, l’esorcista, nel suo libro “Un esorcista racconta”, riporta una testimonianza autobiografica (19) di un ragazzo liberato da quest’esperienza qualche anno fa e sembra tratta da Colle Vento, una descrizione pari, pari di tutte le sensazioni di freddo crescente, di annebbiamento, di immobilità di panico, di terrore, di oscurità. Cito questi due autori semplicemente perché riportano casi reali. La genialità letteraria nel descriverli, magari fosse soltanto una realtà letteraria! Queste cose esistono nel vero. Anche se è pur vero che, ordinariamente, il nostro contatto con le cose oscure è meno vistoso.
I nostri demoni, né troppo criminali né
troppo scandalosi, semplicemente i demoni che ci siamo scelti per aiutarci
a vivere nella solitudine della nostra sufficienza. Non avevamo nulla da
fare, bisognava tenerci occupati: la nostra anima sonnecchiava: ci sembrava
normale trovare degli svaghi per i nostri corpi e i nostri spiriti. Demoni
piccoli o grandi, ambizione e ricchezza, potere e disprezzo, infedeltà
di ogni tipo, sofferenza inflitta o semplicemente dolore spiegato davanti
a noi senza che i nostri occhi battano ciglia al suo spettacolo, né
che le nostre mani facciano carezze, o che le nostre parole diventino rimedio.
A che serve citare tutti i demoni dell'uomo'' Ciascuno se li è scelti
secondo la propria convenienza. Non serve a nulla inventariarli, più
di quanto non serva attaccarli frontalmente. I demoni vivono solo del vuoto
della nostra anima, della sua sonnolenza, della sua sufficienza. La nostra
anima ha orrore del vuoto, lo riempie con ciò che le capita sotto
mano. Voler attaccare i nostri demoni lanciando loro una sfida non porta
a nulla, poiché è il vuoto della nostra anima a essere il
più forte, in ogni caso; è lui che ci governa.
Non abbiamo mai l'ultima parola davanti ai nostri demoni, perché,
se ci capita di farne retrocedere uno, il vuoto che ha lasciato ne richiama
ben presto un altro, se non addirittura quello stesso che era stato allontanato
- non poi così tanto, ed anzi ben disposto a riprendere il suo servizio,
senza rancore né rimprovero. Il demone ha questo di particolare:
viene realmente scacciato solo se gli si occupa il posto, se lo si soffoca
nello spazio in cui svolazza…. Non c’è lotta nell’anima
dell’uomo, c’è solamente un problema di spazio. Fin che
non c’è nient’altro per occupare lo spazio della sua
anima, l’uomo vi accoglie i suoi piccoli o grandi demoni, ma quando
giunge a lasciarvi entrare la soglia d’altro, la sete d’altra
cosa, quando desidera che l’angelo lo visiti più spesso, allora
i demoni si fanno da se stessi più modesti, si ripiegano su di sé,
aspettando giorni migliori. (20)
Lo smarrimento assoluto, l’assenza assoluta di forma o di sostanza è insopportabile anche psicologicamente, anche spiritualmente e metafisicamente.
Lungo le strade che conducono a Dio si cammina talvolta di giorno, talvolta di notte. L'esperienza positiva, cioè il rimanere improvvisamente abbagliati, la percezione di una presenza che, anche quando si nasconde, affascina e appaga, è la luce del giorno. La superficie delle cose, uguale, comune e banale, s'infrange e lascia trasparire il mistero dovunque presente. Così, sepolta nel più profondo del reale, esiste una realtà sovrana, la sola che sia vera, bella e viva. Basta che il cuore la intraveda, anche per un solo istante, perché il fascino e la ferita che essa produce non si cancellino mai più dalla memoria. E tuttavia questa esperienza, quali che siano la sua intensità e la gioia ch'essa procura, è solo un approccio. Non è la percezione dell'impercettibile, non dona Dio alla nostra fruizione. Dio è sempre «Tutt'Altro», sempre «altrove»; nessun presagio, nessuna esperienza si identifica con il mistero di lui. Bisogna proseguire senza fermarsi in nessuna tappa, senza attaccarsi a nessuna immagine. E così che viene affrontato il percorso notturno della strada. (21)
Lungo le strade della vita non ci sono solo canti elfici sotto le stelle, ci sono tanti ostacoli nella vita che toccano una zona di confine tra la luce e le tenebre. Che ci piaccia o non ci piaccia, è così. Potremmo dire non ci interessa, ma non ci sono, purtroppo zone neutre.
Il presentimento del mistero, che infrangendo l'insignificanza delle cose in mezzo alle quali camminiamo di quando in quando ci stimola e ci sollecita, non è un'illusione. È il pane che fortifica il pellegrino nella traversata del deserto. Anche la parola di Dio accolta nella fede e celebrata nei sacramenti è vera, salda e sicura: possiamo e dobbiamo trovar sostegno in essa. Ma l'illusione comincia quando il segno, anche se pregnante della realtà, viene preso per la realtà stessa, quando ci riposiamo nel segno e rifiutiamo di procedere oltre. E grande la tentazione di compiacersi dell'esperienza, per quanto modesta possa essere, di gioirne per davvero, di ritenerla nella propria memoria come un'acquisizione definitiva. E’ lo stesso cammino e, ungo il cammino, il soccorso di una mano potente che ci faranno uscire dalle illusioni. Ciò su cui contavamo, che costituiva la nostra gioia, dolce ferita, sostegno delle nostre certezze, ci sarà sottratto, sia insensibilmente, a poco a poco, sia bruscamente. (22)
Quindi è urgente uscire dall’illusione. E’ una sorta di schizofrenia: mentre guardiamo i telegiornali, ci accorgiamo di cosa può fare l’uomo all’uomo, poi nella nostra vita privata ci costruiamo tutto un mondo fantasioso, pensando che quello non ci riguardi interiormente e che non ci sia alcun tipo di interazione con quelle “bassure” dell’uomo più cattivo; magari fosse vero! Nel mondo secondario de Il Signore degli Anelli o del Silmarillion lo si coglie molto bene. E non solo lì:
Lucrezio vedeva già dappertutto i sintomi e 'autunno
e mondo, preludio della sua decadenza e fine. Idee simili si diffondevano
largamente non solo in Occidente, ma anche in India e in Cina.
Ma la natura stessa del suo spirito non permette all'uomo di arrendersi
così facilmente a quest'idea dell'insensatezza dell'essere; così,
pur avendo perso la fede in tutto, la gente rifiutava di vedere la vita
come un lampo della materia, al quale necessariamente avrebbero fatto seguito
le tenebre. Ecco perché, quando vennero a contatto con le religioni
orientali, i romani ne provarono una fortissima attrazione. L'Occidente
fu letteralmente conquistato dai più vari culti stranieri: la dea
egiziana Iside ebbe le preghiere dei sudditi romani dalla Britannia ai Balcani,
a Roma sorsero sinagoghe ebraiche, templi della dea-madre della Frigia Cibele,
del dio persiano Mitra. Predicatori vaganti annunciavano verità che
giungevano dalle rive del Gange, dalla Partia, dall'Asia centrale; riebbero
popolarità le sacre rappresentazioni greche che promettevano ai partecipanti
l'immortalità e la conoscenza di mondi superiori. L'occultismo, l'astrologia,
la magia e ogni sorta di chiromanzia trovarono devoti accoliti in tutte
le classi sociali; la brama di mirabilia fece crescere le superstizioni
e la ciarlataneria.
A questo spettacolo, coloro che erano propensi allo scetticismo dovettero
perdere del tutto la speranza di conoscere il senso della vita; giunsero
certamente alla conclusione che all'eterna domanda dell'uomo: «Che
cos'è la verità», non c'è risposta. Insomma,
lo sbaraglio delle idee era totale. Sotto uno stesso tetto potevano convivere
mania di sensazioni mistiche e assoluto agnosticismo, anelito alla purezza
e sbandamento morale. Non erano rare le famiglie in cui il padre si rinchiudeva
in uno stoico disprezzo delle vanità del mondo, la madre frequentava
assiduamente riti notturni di settari, il figlio inventava sempre nuovi
tipi di piacere e cercava forti emozioni. L'uomo, insomma, era giunto a
un bivio, e da ogni direzione sentiva delle voci che lo invitavano: «Sii
indifferente alle gioie e alle tristezze della vita, immergiti nella meditazione»,
gli dicevano i buddisti e gli stoici; «Vivi secondo natura, come tutti
gli altri esseri», insegnavano i filosofi cinici e gli epicurei; «La
felicità è nel sapere e nella meditazione», obiettavano
gli empirici; «Purificati con riti segreti e giungerai all'immortalità»,
assicuravano i vari occultisti; «Sii fedele al Dio uno e rispetta
la sua Legge», annunciava la religione di Israele. E l'aquila romana,
sempre alla ricerca della preda, planava su questo vortice di spiritualità
in cui, come nel caos primordiale, si mescolavano principi contraddittori.
Di tanto in tanto rinverdiva la speranza che sarebbe apparso qualcuno che
avrebbe fatto uscire l'umanità da questo labirinto. (23)
Io sono convinto, come Tolkien era convinto, che anche nel mondo primario questo sia vero, tranne che uno voglia, di fronte alla domanda “cos’è la verità?” sostenere che non c’è risposta, non c’è salvezza, ma poi va a consultare l’oroscopo per vedere chi lo protegge domani. Soluzione alquanto fasulla. Dall’altro canto il mondo misterioso è affascinante e entrarci dentro è anche legittimo, come, per esempio, quando Galadriel invita Frodo e Sam a guardare nello Specchio:
Con l’acqua del ruscello Galadriel riempì la vasca sino all’orlo, e vi soffiò, e quando l’acqua fu nuovamente calma, disse: “Questo è lo Specchio di Galadriel. Vi ho portati qui affinché possiate guardarvi, se lo desiderate”. L’aria era molto tranquilla, e la conca molta oscura e la Dama Elfica accanto a lui era alta e pallida. “Che cosa dobbiamo cercare, e che cosa vedremo?”, domandò Frodo pieno di meraviglia. “Molte cose comando allo Specchio di rivelare”, rispose ella, “e ad alcuni posso mostrare ciò che desideri vedere. Ma lo Specchio può anche spontaneamente mostrare immagini, che sono spesso più strane e utili di quelle che noi stessi desideriamo vedere. Non vi so dire quel che potrete mirare, lasciando lo Specchio libero di creare. Esso infatti mostra cose che furono, e cose che sono, e cose che ancora devono essere. Ma quali tra queste egli stia vedendo, nemmeno il più saggio può sapere. Desideri guardare?”. Frodo non rispose. “E tu?”, disse rivolgendosi a Sam. “Questo è ciò che la tua gente chiamerebbe magia, suppongo; non comprendo tuttavia ciò che intendo dire, poiché sembra che adoperino la stessa parola anche per gli anni del Nemico. Comunque sia, codesta è, se vuoi, la magia di Galadriel. Non dicesti forse che desideravi vedere un po’ di magia elfica?”. (24)
Purtroppo Galadriel è partita e Gandalf con lei, non rimane magia elfica a nostra disposizione. Cercare di vedere le cose così, sarebbe cercare di ricreare i palantir. E ricreare i palantir può essere molto pericoloso…
«I palantíri potevano parlare indistintamente
tra di loro, ma ad Osgiliath li potevano sorvegliare tutti assieme allo
stesso tempo. Ora parrebbe che la roccia di Orthanc che ha resistito a tutte
le intemperie conservi ancora il suo palantír. Ma senza gli altri
poteva vedere ben poco, solo piccole immagini di cose lontane e di giorni
remoti. Ciò si dimostrò, senz'alcun dubbio, assai utile a
Saruman; eppure evidentemente non gli bastava per renderlo soddisfatto.
Guardò sempre più lontano verso ignoti paesi, finché
posò lo sguardo su Barad-dur. Ed allora fu reso succube!
«Chissà ove giacciono ormai tutti gli altri globi: rotti, sepolti
o profondamente sommersi? Sauron comunque ne deve aver scoperto uno, poi
adattato ai suoi usi. Suppongo si tratti dell'Ithil-sfera, poiché
s'impadronì di Minas Ithil molto tempo addietro, trasformandolo in
un luogo infido: oggi si chiama Minas Morgul. « È facile immaginare
con quanta rapidità l'occhio scrutatore di Saruman venne intrappolato
e ipnotizzato, e come sia stato facile da allora persuaderlo da lontano
e minacciarlo quando la persuasione non era sufficiente. Chi soleva mordere
era stato morso, il falco dominato dall'aquila, il ragno intrappolato in
una rete d'acciaio! E quale forza d’attrazione possiede! Non l’ho
forse provata io stesso? Ancor ora il mio cuore desidera esercitare la propria
volontà su di essa, per tentare di strapparla a Sauron e dirigerla
là ove vorrei…oltre l’ampio mare d'acqua e di tempo che
ci separa da Tirion la Splendida, per poter scorgere al lavoro l'ineffabile
mano e spirito Feanor fra l’albero Bianco e l'Albero d'Oro in fiore!».
Sospirò e tacque. (25)
E, se facciamo come Pipino, andiamo a sbirciare comunque:
« Se soltanto avessi saputo tutto ciò!», esclamò Pipino. «Non immaginavo nemmeno lontanamente quel che stavo facendo». «Invece lo immaginavi, eccome!», disse Gandalf. «Sapevi il tuo comportamento era errato e sciocco; in te una voce lo di ma tu non l'ascoltasti. Se non ti avevo detto nulla di tutto ciò sino t perché l'ho infine capito a furia di rimuginare sull'accaduto ad mentre galoppavamo insieme. Ma anche se ti avessi dato qual ragguaglio, il tuo desiderio non sarebbe stato più debole, né facile da respingere, anzi! No, la mano bruciata è la migliore lezio Dopo un'esperienza simile gli avvertimenti vanno dritti al cuore». « Hai ragione! », disse Pipino. « Se adesso ponessero innanzi me tutt'e sette le pietre, chiuderei gli occhi e metterei le mani tasca ». « Bene! », disse Gandalf. « È ciò che speravo». «Ma vorrei sapere... », riprese Pipino. « Pietà! », gridò Gandalf. « Se per curare la tua curiosità é necessario distribuire informazioni, passerò il resto dei miei giorni a risponderti. Che altro vuoi sapere?». «Il nome di tutte le stelle, di tutti gli esseri viventi, 1'intera storia della Terra di Mezzo, del Sopracielo e dei Mari Nemici!», rispose ridendo Pipino. «Beninteso! O forse tu pensavi a qualcosa di meno? Stasera, comunque, non ho fretta, e mi stavo semplicemente domandando che cosa fosse quell'ombra nera. (26)
Tutti dovremmo aver un palantir, bruciarci le mani prima di incorrere nella
pazzia di Denethor ?
Pensare che oggi le cose siano diverse sarebbe un’
illusione fatale. L'oppositore del genere umano non è legato luoghi,
tempi o condizioni di vita. Chi entra oggi in monastero o si dà alla
vita religiosa o ecclesiastica, in questo nostro mondo demitizzato, spesso
non considera questo fatto fondamentale: egli è eo ipso entrato nel
"deserto", nel luogo dell'isolamento e della derelizione, di desolati
percorsi di sete e di ingannevoli miraggi. Chi non volesse ammettere questa
realtà e che immaginasse di essere solo un bravo "operaio nella
vigna del “Signore”, correrebbe il rischio di misconoscere la
vera natura delle difficoltà che inevitabilmente incontrerà.
Sarà sorpreso di trovare nella sua "vigna" tanta "zizzania",
"spine e cardi", invece di "uva", e non capirà
che è stato il "nemico" a seminarli di nascosto. Questa
lotta non è un semplice incidente, un imprevisto, ma è parte
integrante della vita nel deserto! Paradossalmente questa mancanza di consapevolezza
non si riscontra solo nei cristiani che vivono nel mondo, il cui sguardo
spesso è offuscato dall'opacità dei beni materiali, ma anche
in tanti monaci ecclesiastici, che pure dovrebbero più avvertiti.
Qualcuno forse ci obietterà: "Non parlateci più del `mondo'
né del diavolo! Sono vecchie favole, e l'uomo del nostro tempo non
sa che farsene!". Che sia diventato difficile parlare all’uomo
moderno del male come di una potenza personale, è vero. Talmente
vero che un biblista contemporaneo ha potuto avanzare la richiesta che la
si finisca una volta per tutte con il "mito dei diavolo"! Il poeta
avrebbe dunque visto, in questo caso, più chiaro del biblista? Nel
suo Spleen de Paris Baudelaire, con grande sgomento del diavolo, fa dire
a un predicatore, che era "più acuto dei suoi confratelli",
questa frase diventata giustamente celebre per il suo cinismo e la sua chiaroveggenza:
“Miei cari fratelli, non dimenticate mai, quando sentirete vantare
il progresso dei lumi, che la più bella scaltrezza del diavolo è
quella di persuadervi che non esiste!” (27)
Il Signore Oscuro esiste. Se la prova fu dura per Boromir, chi di noi è così “pulito” come Faramir?
«Ahimè, povero Boromir! Fu una dura prova! », disse. « Come , avete accresciuto la mia pena, voi due, strani viandanti di un remoto paese, portatori del pericolo degli Uomini! Questi, però, voi non li sapete ancora valutare con giustizia. Siamo gente sincera, noi Uomini di Gondor. Le rare volte che ci vantiamo, facciamo di tutto per dare una dimostrazione, o moriamo nel tentativo. Io non m'impadronirei di quell'oggetto anche se lo trovassi lungo la strada, dissi qualche tempo fa. Pur se fossi Uomo da desiderarlo, e benché allora non sapessi precisamente di che cosa stessi parlando, considererei tuttavia quelle parole una promessa vincolante. « Ma non sono quel genere d'Uomo. O forse sono abbastanza saggio per sapere che vi sono pericoli dai quali un Uomo deve fuggire… Dormite ambedue… in pace, se ne siete capaci. Non temete! Non desidero vederlo, né toccarlo, né sapere altro su di esso (qual che già so è più che sufficiente), e non voglio che il pericolo mi tenda in agguato, rivelandomi alla prova più debole di Frodo figlio di Drogo. (28)
Che cosa c’è dietro a questa curiosità malsana per le cose oscure? Ci sono i tamburi rullanti che portano Grond, quell’ariete dell’oltretomba per sfondare le porte:
Era contro il cancello che egli intendeva lanciare l’assalto
più massiccio. Benché esso fosse estremamente robusto, forgiato
in ferro e acciaio e difeso da tori e bastioni di roccia inespugnabile,
tuttavia era la chiave, il punto più debole di quell’immensa
e impenetrabile muraglia. I tamburi rullano più forte. Nuovi incendi
avvamparono. Delle grosse macchie strisciarono attraverso il campo, e fra
esse vi era un enorme ariete, grande come l’albero di una foresta,
lungo circa cento piedi, sostenuto da possenti catene. Da molto tempo ormai
le oscure fucine di Mondor erano intente a forgiarlo, e la sua mostruosa
testa, fusa in acciaio nero, riproduceva le sembianze di un lupo vorace;
esso recava in sé diabolici incantesimi. L’avevano chiamato
Grond, in memoria dell’antico Martello dell’Oltretomba.
Allora il Capitano Nero si rizzò sulle staffe e urlò con voce
spaventosa, pronunciando in qualche ignoto linguaggio parole di potere e
di terrore tali da leccare cuori e rocce. Urlò tre volte. Tre volte
rimbombò il grosso ariete. Ed improvvisamente all’ultimo colpo
il Cancello di Gondor cedette. Come colpito da un lacerante maleficio, lo
si vide saltare in aria: vi fu un lampo di luce accecante ed i battenti
crollarono in terra frantumati in mille pezzi. (29)
Vogliamo confrontarci con questo. Io posso crederci o non credere nei dobermann,
ma se apro una porta e ci sono dei dobermann inferociti, che io ci creda
o che io non ci creda, è indifferente ai dobermann. Se io prendo
un veleno, non credendo che sia veleno…tutti i funghi sono commestibili,
però alcuni funghi si possono mangiare una volta sola, anche se non
lo credevo… la realtà non dipende da quello che noi crediamo
o non crediamo. (30)
Lewis ci rincuora:
Seppur caduto addietro l’uomo non è perduto ancora, né senza metro. Conosce la disgrazia ma è ancora tale e serba i brandelli del suo manto regale… (31)
Noi continuiamo ad avere la possibilità della saggezza, se vogliamo e se ci preoccupiamo di come va male il mondo, di come è astuto il nemico e di quanta cattiveria c’è. Questa è la saggezza di Denethor:
Nei suoi giorni di saggezza Denethor non immaginò di adoperarla, né di sfidare Sauron, conoscendo i limiti delle proprie forze. Ma la sua saggezza venne a mancare; e temo che quando crebbe il pericolo per il suo reame, egli guardò nella Pietra e fu ingannato; ciò accadde più di una volta, credo, dopo la partenza di Boromir. Denethor era troppo grande per venire assoggettato al volere dell'Oscuro Potere, ma vide soltanto le cose che questi gli permise di vedere. Ciò che apprese gli fu indubbiamente più volte utile; ma la visione dell'enorme potenza di Mordor che gli veniva ripetutamente mostrata alimentò nel suo cuore la disperazione, a tal punto da sconvolgergli la mente». (32)
Diceva tutte cose vere e vedeva tutte cose vere, ma gli è stata tolta la speranza e la disperazione è la cosa peggiore. Ricordate “Le lettere di Berlicche” di Lewis? E’ un buon libro per conoscere il realismo delle cose e conservare allo stesso tempo il senso dell’umorismo. O ricordate “Il grande divorzio” , sempre di Lewis ? Tutti desideriamo pienezza: diceva già Sant’Agostino:
Perché altro è vedere la terra della pace da una cima boscosa… e altro è seguire la strada che ad essa conduce.
Se uno soltanto pensa di poter arrivare a quella pienezza, a quella pace, ricercando “Qualcosa” ripeterà forse quello che feci io 25 anni fa, quando entrai in seminario dicendo che volevo dedicarmi alle cose eterne. Ci ho messo 25 anni per capire che le cose eterne non possono dare la felicità anche se uno le ottenesse, soltanto le persone eterne possono farlo. E’ Qualcuno e non Qualcosa la risposta!
Qualcuno si chiederà se il mio terrore fosse in qualche modo alleviato dal pensiero che ora andavo avvicinandomi alla fonte cui la mia gioia aveva sempre attinto le sue frecce. Nemmeno per idea. Nulla mi faceva pensare che Dio e la mia gioia fossero o sarebbero mai stati collegati. Se mai, era il contrario. Avevo sperato che il cuore della realtà fosse tale da poter essere simboleggiato come un luogo; invece, scopersi che si trattava di una persona. (36)
Si potrebbe formulare questa affermazione paradossale: che la consapevolezza di avere a che fare con manifestazioni di potenze malvagie personali, ci ricorda che anche noi siamo persone e che, nel modo di relazionarci con la vita, ci giochiamo la felicità e che c’è un Tu (Eru Luvatar), che ci ha fatto figli suoi per la nostra felicità. (37)
Altri mali potranno sopraggiungere, perché Sauron stesso non è che un servo o un emissario. Ma non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare. Ma il tempo che avranno non dipende da noi. (38)
Come anche Gandalf dice a Frodo, e le sue parole perfino vengono conservate nel film di Jackson, anche se il dialogo che era capitato a Bag-End viene messo nelle Miniere di Moria. Non possiamo scegliere il tempo nel quale viviamo, “perché io ho dovuto ereditare l’anello?”. Non possiamo scegliere il tempo nel quale viviamo, non dipende da noi; dipende da noi come utilizziamo il tempo che ci è stato dato. La saggezza di Gandalf vale per tutti e poi perché ci sono altre potenze all’opera nel mondo…
Per intere settimane, Sam fu troppo indaffarato per
ripensare alle sue avventure, ma un giorno, improvvisamente, gli venne alla
memoria il dono di Galadriel. Tirò fuori lo scrigno e lo mostrò
agli altri Viaggiatori (tutti li chiamavano così, ora), chiedendo
consiglio. «Mi chiedevo quando te ne saresti ricordato», disse
Frodo. «Aprilo!» Dentro era pieno di una polvere grigia, soffice
e sottile, in mezzo a cui c'era un seme, una specie di piccola noce ricoperta
da un'oleosità argentea. «Che me ne faccio?», chiese
Sam. «Getta in aria questa polvere in una giornata di vento, e vedrai
che qualcosa succederà», disse Pipino. «Su quale terreno?»,
chiese Sam. «Scegli un posto come vivaio, e osserva come vengono su
le piante», disse Merry. «Ma sono certo che la Dama non gradirebbe
che io tenga tutta questa polvere per il mio giardino, ora che tanta gente
ha sofferto gli stessi danni», disse Sam. «Usa il tuo intuito
e le tue cognizioni, Sam», disse Frodo…
Sam si domandò cosa ne sarebbe venuto fuori. Lasciò passare
l'inverno il più pazientemente possibile, cercando di trattenersi
dal girare la Contea per vedere se accadeva qualcosa. La primavera superò
ogni sua più ardita speranza. Gli alberi incominciarono a germogliare
e a crescere; il tempo sembrava aver fretta, come se un anno contasse per
venti. (39)
Era passata l’era degli Elfi, la magia non circondava più
Lorien, ma c’era una benedizione all’opera nella Contea, “in
quella polvere e in quel grano”…..
Anche quando Frodo si imbarca e parte:
…nell’aria una fresca fragranza, e udì dei canti giungere da oltre i flutti. Allora gli parve che, come quando sognava nella casa di Bombadil, la grigia cortina di pioggia si trasformasse in vetro argentato e venisse aperta, svelando candide rive e una terra verde al lume dell’alba. (40)
Se quella, in altro linguaggio, è la speranza, grosso modo credo che quasi tutti possono condividere, come diceva p. Guido Sommavilla:
Tutti dunque, o quasi, irreali per la terra, ma non impossibili per il mondo universo i personaggi dell'epos tolkieniano. Infatti, a dispetto dell'irreale fiabesco, il lettore ha una continua impressione di realismo e di realtà umanissima. Non solo perché l'arsenale da cui l'autore attinge ogni suo materiale costruttivo è quello della storia e della psicologia umana più autentica, ma soprattutto perché ogni lettore si sente interpretato nel mistero verissimo della propria umanità sulla terra dal tema fondamentale e dalle sue variazioni inesauribili. È il mistero della propria esistenza drammatica. (41)
Dal momento che nella nostra umanità ci sentiamo interpellati da
questo mistero verissimo di questa umanità, della nostra umanità
in questa terra e scopriamo che tutto è vero, che è vero il
sogno di Frodo a casa di Tom, che è vera la visione tra i flutti
e il canto che sente quando si avvicinano alle rive immortali. Tutto è
vero, l’oscuro signore non ha l’ultima parola e tutte le onde
del tempo non dobbiamo gestirle noi; una piccola luce sconfigge le tenebre
più fitte, come diceva Madre Teresa di Calcutta, “invece
di prendervela con le tenebre accendete una luce”, la fiammella
più piccola penetra le tenebre più fitte.
Allora se capiamo che tutto è vero, ed è vera l’oscurità
ed è vera la luce e sono vere le potenze all’opera e sono più
potenti di quelle dell’oscuro signore, allora la vita vale la pena
di essere vissuta: per male che vada a noi, potremmo salvare le cose per
altri se non per noi stessi, come Frodo.
Verità dunque. Ma che bellezza: fantasia, psicologia, lingua, ironia tutte straordinarie. Tuttavia questa storia non sarebbe intensamente bella quanto è se le sue magnifiche forme espressive non ci ritrasmettessero l’eco di quella verità-mistero, dimenticata ma non spenta, che noi siamo nel profondo; in altri termini se questa storia non fosse epica nel senso più pieno della parola. Esala da ogni sua pagina l’arcano sapore mitico dei grandi motivi epici delle grandi narrative di ogni tempo: « Riconquiste » di tesori perduti, ma non soltanto d'oro e d'argento; « Andate e Ritorni » (There and Back Again è, in inglese, il sottotitolo) ma non a una casa qualunque; dilemmi del Bene e del Male e battaglie contro il Maligno, ma nel senso mistico del termine e non soltanto moralistico e socio-politico; giochi e conflitti fra Grazia divina e arbitrio umano, alleanze umano-divine, e via dicendo. E inoltre il singolo che si sente nel tutto, e viceversa. Più d'uno di questi motivi risuona nelle ultime battute che Gandalf e Bilbo si scambiano alla fine in casa di costui: «Allora le profezie delle vecchie canzoni si sono rivelate vere, più o meno!» disse Bilbo. «Ma certo!» disse Gandalf. « perché non dovrebbero rivelarsi vere? Certo non metterai in dubbio le profezie, se hai contribuito a farle avverare! Non crederai mica, spero, che ti sia andata bene in tutte le tue avventure e fughe per pura fortuna, così solo e soltanto per il tuo bene? Sei una bravissima persona, signor Baggins, e io ti sono molto affezionato; ma in fondo sei solo una piccola creatura in un mondo molto vasto! » «Grazie al cielo!» disse Bilbo ridendo, e gli porse la borsa di tabacco. (42)
E noi, grazie al cielo, non siamo più grandi di Bilbo, però la nostra piccola parte la possiamo fare, anche se non avessimo tabacco!
P. Guglielmo Spirito ofmconv
Rimini, 11 Marzo 2005
Tratta da: SPIDLIK, Tomas, Ignazio di Loyola e la spiritualità orientale, guida alla lettura degli Esercizi, Edizioni Studium, Roma, 2003, pp. 92-95.
Nel suo libro La colonna e il fondamento della verità, P.
Florenskij propone questa esperienza vissuta: O mio starec! Non posso dirti
con quale timore mi accingo a scrivere questa lettera, perché so
bene quale sia la difficoltà di espressione; lo scheletro dei nostri
rozzi concetti è troppo grossolano e ci vuol niente a rovinare l'integrità
del tessuto quasi impalpabile delle esperienze vissute, quando la si tende
su questa ossatura. Forse soltanto le tue mani lo sapranno raccogliere senza
strapparlo. La questione della «morte seconda» è dolorosa;
una volta l'ho esperimentata in sogno in maniera pienamente concreta, senza
immagini e con esperienze puramente interiori. Mi circondava un buio pesto,
tanto fitto da essere tangibile; certe forze mi trascinavano sull'orlo,
e sentivo che era l'orlo dell'Essere divino oltre al quale c'è il
nulla assoluto. Volevo gridare e non potevo; ancora un istante, e sarei
precipitato nelle tenebre esteriori. La tenebra incominciava a trasfondersi
in me; la mia coscienza era per metà scomparsa e sapevo che questo
era l'annientamento assoluto, metafisico. Nella disperazione suprema gridai
con una voce che non era più la mia: «Dal profondo io grido
a Te, Signore! Mio Signore, dammi ascolto» (Sal 129, 1). In queste
parole effusi tutta l'anima. Le mani di qualcuno mi afferrarono con potenza
mentre affogavo e mi gettarono lontano dall'abisso; la spinta fu improvvisa,
piena di autorità. Di colpo mi ritrovai nel solito ambiente, mi pare
nella mia camera; dal non essere mistico alla vita quotidiana. Allora immediatamente
mi sentii davanti alla faccia di Dio e mi svegliai intriso di sudore freddo.
Sono trascorsi quasi quattro anni, eppure tremo tutto alle parole «la
morte seconda», la tenebra esteriore, la cacciata dal Regno. Tutto
il mio essere freme ancora quando leggo: «Che non resti solo senza
di Te, datore di vita, mio respiro, mia vita, mio gaudio, mia salvezza»,
cioè che non resti nell'inferno, fuori della vita, del respiro e
del gaudio. Tuttora apprendo con nostalgia e commozione la parola del salmista:
«Non rigettarmi via dal tuo cospetto, non ritogliermi il tuo spirito
santo» (Sal 50, 13). Eppure il mio sogno, la mia commozione sono uno
scherzo in confronto al bruciare da sveglio per trentatré anni nella
geenna di fuoco, al morire della morte seconda per trentatré anni.
Ora questo è accaduto realmente.
Nelle carte di Nikolaj Aleksandrovic Motovilov, "piccolo servitore
della Madre di Dio e di Serafino", scoperte da S. Nilus, si trova la
descrizione di un principio di ossessione demoniaca, straordinaria per chiarezza
e concretezza. Ecco nella loro realtà vissuta le pene della geenna,
per quanto le possa attingere 1a nostra coscienza attuale:
«In una stazione postale sulla strada di Kursk - così riferisce
S. Nilus le parole di Motovilov - Motovilov si era fermato per passarvi
la notte. Rimasto solo in camera, estrasse dalla valigia i suoi manoscritti
e in cominciò a ordinarli alla luce fioca di un'unica candela che
illuminava appena la grande camera. Tra i primi fogli gli capitò
sottomano la descrizione della guarigione della nobile Eropkina, indemoniata,
avvenuta sulla tomba del santo vescovo Mitrofane di Voronez. "Incominciai
a riflettere", scrive Motovilov, "come possa accadere che una
cristiana ortodossa, la quale si comunica ai purissimi e vivificanti misteri
del Signore, improvvisamente sia invasata dal demonio e per più di
trent'anni. Sciocchezze!, pensavo. Impossibile! Vorrei vedere se il demonio
osa installarsi in me che mi comunico spesso". In quel medesimo istante
una nube terribile, fredda, maleodorante, lo circondò e cominciò
a penetrargli nella bocca attraverso i denti serrati con spasimo. Il povero
Motovilov si dibatteva, cercava di difendersi dal gelo, dal puzzo, dalla
nube che lo invadeva, ma tutto fu vano. Le sue mani erano totalmente paralizzate
e incapaci di fare il segno della croce, il pensiero raggelato dal terrore
non poteva ricordare il nome salvifico di Gesù. La cosa orribile
e ributtante accadde, e per Motovilov incominciò un periodo di terribili
sofferenze. In questo stato egli tornò a Voronez dall'Arcivescovo
Antonio. Il suo manoscritto descrive così le sue pene: "Il Signore
fece sì che su me stesso, non in sogno o in visione ma veramente,
provassi tre tormenti della geenna:
a) il fuoco senza luce e che solo la grazia dello Spirito Santo può
estinguere, durò tre giorni e mi sentivo ardere senza bruciare. Sedici
o diciassette volte al giorno mi ripulivano dalla fuliggine della geenna
e tutti lo potevano constatare. Questa pena cessò solo dopo la mia
confessione e comunione, per le preghiere dell'arcivescovo Antonio e le
suppliche che egli ordinò di fare in tutte le quarantasette chiese
di Voronez e in tutti i monasteri per il servo di Dio malato, Nikolaj;
b) il feroce tartaro della geenna con il fuoco che non solo non bruciava
ma neanche riscaldava, durò due giorni. Per ordine dell'arcivescovo
io tenni una mezz'ora sulla fiamma della candela la mano che diventò
tutta nera ma non si riscaldò neppure. Ho scritto una pagina intera
su questa esperienza sicura, apponendovi l'impronta della mia mano annerita.
Grazie alla comunione, nonostante queste sofferenze potei mangiare e bere
e anche dormire un poco, ma il tormento era visibile a tutti;
c) il terzo momento della geenna durò solo un giorno e mezzo, ma
fu enorme, terribile e doloroso, indescrivibile e inattingibile. Non so
come rimasi vivo. Anch'esso scomparve dopo la confessione e la comunione
che l'arcivescovo Antonio mi diede di sua mano. Fu la pena del verme insonne
della geenna, visibile a me solo e all'arcivescovo, ma che non mi permise
né di dormire né di mangiare né di bere, perché
questo pessimo verme mi riempiva tutto, strisciava in tutte le mie viscere,
rodeva inspiegabilmente tutto il mio intestino, mi usciva dalla bocca, dalle
orecchie e dal naso per tornare nelle mie viscere. Dio mi diede potere su
di esso e così potei afferrarlo e tirarlo. Sono costretto a descrivere
tutto questo, perché il Signore non mi ha dato invano questa esperienza
e nessuno pensi che io osi nominare il nome di Dio invano. Nel giorno del
terribile giudizio Lui stesso, Dio, aiuto e protettore mio, renderà
testimonianza che non ho mentito contro di Lui e contro ciò che la
sua divina provvidenza ha compiuto in me". Dopo questa tentazione terribile
e incomprensibile all'uomo comune, ben presto Motovilov ebbe la visione
del suo protettore san Serafino, il quale lo consolò promettendogli
la guarigione in occasione della ricognizione del corpo del santo vescovo
Tichon Zadonskij e assicurandolo che nel frattempo il demonio installatosi
in lui non l’avrebbe tanto crudelmente tormentato. La ricognizione
avvenne solo trent’anni dopo e Motovilov con fede attese per tutto
questo tempo la guarigione e l’ottenne».
LA TESTIMONIANZA DI UN COLPITO
Questo capitolo non è mio, ma è una testimonianza scritta con rara chiarezza. Pure per l’esorcista più esperto, è sempre difficile immedesimarsi e capire ciò che provano gli ossessi. E anche quella che può apparire un’infestazione di media gravità, nasconde sofferenze che lo stesso paziente fa fatica a descrivere. E’ stato questo lo sforzo principale di G.G.M.: cerca di esprimere l’inesprimibile, confidando di essere capito soprattutto da chi è affetto da un male analogo.
Cominciò tutto dopo i 16 anni. Prima ero un ragazzo felice, spigliato
e piuttosto allegro, anche se una certa oppressione mi perseguitava e dovunque
mi si diceva: «Noi facciamo questo; e tu? ». «Noi andiamo
lì e tu?». Non capivo il perché, ma allora non me ne
facevo un problema. Abitavo in una cittadina marittima; il mare, l'alba
e le campagne mi davano un aiuto notevole per tenermi lontano dalle malinconie.
Dopo i 16 ami mi trasferii a Roma, lasciai la Chiesa e cominciai a frequentare
tutto ciò che in una grande città attira un forestiero, cioè
tutte quelle situazioni estremiste che in un paese non sono neanche conosciute.
Ben presto conobbi drogati, barboni, ladri, ragazze facili e via dicendo.
Avevo una certa fretta nell’imparare tutto questo «rumore»
che mi distoglieva enormemente dalla pace che avevo prima. Cominciai a vivere
questa nuova dimensione artificiosa, satura, nauseante. Avevo un padre molto
oppressivo, controllava ogni mia mossa ed era sempre disgustato di me. La
somma di questi disgusti e di tutte le umiliazioni che mi dava mi spinse
come una molla in mezzo alla strada. Me ne andai di casa e conobbi bene
fame, freddo, sonno e cattiveria. Frequentavo donne leggere e amici pesanti.
Presto sorse in me una domanda senza risposta: «Perché vivo?
Perché mi ritrovo per strada? Perché io sono così e
gli altri invece hanno la forza per lavorare e sorridere?». A quel
tempo frequentavo una ragazza che credeva che il male fosse più forte
del bene; parlava di streghe, maghi e scriveva cose da capogiro. Io pensavo
che era molto intelligente perché era fuori dalla portata di un essere
umano scrivere tutte quelle congetture sul mondo e sulla vita. Lessi tutti
i suoi quaderni e poi le imposi di bruciarli davanti a me perché
parlavano solo di male e mi dava un po’ paura tenere quei fogli in
giro per casa. Fui tanto odiato da quella ragazza senza capire il motivo;
cercai di aiutarla ad uscire da quel cono nero, ma non ci riuscii, mi derideva
e con me il bene che proponevo. Tornai a casa con i miei amici, mi misi
con un'altra ragazza peggiore della prima e per qualche anno fui triste,
sfortunato e perseguitato da ogni persona che conoscevo; una specie di buio
mi circondava, il sorriso era fuggito da me e le lacrime erano sempre pronte
a rigare il viso. Ero disperato e ancora mi domandai: «Perché
vivo? Chi sono io? Che fa l’uomo sulla terra?». naturalmente,
nel mio ambiente, tutto ciò non interessava a nessuno e dentro di
me, in un momento di disperazione molto forte gridai con un filo di voce:
«Dio mio sono finito! Eccomi davanti a te… aiuto». Pare
che fui ascoltato; dopo qualche giorno la ragazza che avevo entrò
in una chiesa, fece la comunione e si convertì in un tempo record.
Io, per non essere da meno, feci lo stesso e capitai in una chiesa nella
quale portavano in processione la Madonna di Lourdes; mi chiamarono per
aiutare a portare la statua e benché mi vergognassi, lo fece e ne
fui orgoglioso. Feci la comunione e rimasi stupito del confessore che fu
buono e comprensivo. Uscii da lì dicendo: «Ce l’ho fatta;
sono tornato al bene». E anche se non conoscevo che cosa era il bene,
sentivo che era così.[…] Tornammo alla Chiesa in forma piena,
cambiammo vita, amammo Dio più di noi stessi, tanto che lei si fece
suora e io pensai al sacerdozio. Non contenevo più la gioia di avere
un motivo per vivere e che la vita non finisse qui. Ma non era che l’inizio;
c’era infatti «qualcuno» che non era contento di tutto
questo. […] Comincia a risentire l’eco di quel buio che la mia
anima viveva prima di scoprire Dio. Nel giro di qualche settimana, quella
sensazione che io attribuivo all’oppressione di mio padre, alla condizione
disagiata in cui, per vari motivi, ero vissuto e a un tormento che credevo
comune senza capire che per gli altri non era così, questa sensazione,
dicevo divenne realtà. Cominciai a soffrire come mai mi era successo;
sudavo avevo la febbre e la forza mi aveva abbandonato, tanto che non riuscivo
più a mangiare, ma venivo imboccato. Avevo la percezione di soffrire
con qualcosa di diverso dal corpo, infatti esso era come estraneo a questi
fatti. Provavo una disperazione fortissima e vedevo, non so con quali occhi,
un buio che ottenebrava non la stanza dove stavo, non il letto sul quale
ormai da mesi mi trovavo, ma il futuro, la possibilità di vita, la
speranza del domani. Ero come ucciso da un coltello invisibile e sentivo
che chi premeva questo coltello mi odiava e voleva di più della mia
morte. E’ molto difficile spiegare a parole, ma era così come
ho detto. Dopo vari mesi ero impazzito e non ragionavo più, volevano
portarmi in manicomio; non capivo più quello che dicevo perché
ormai vivevo in un'altra dimensione: quella in cui soffrivo. La realtà
era come staccata da me. Era come se fossi presente nel tempo solo col corpo,
ma l’anima si trovasse altrove, in un posto orribile, dove non penetrava
luce e non esistono speranze. Rimasi molti mesi così, tra la vita
e la morte e non sapevo più cosa pensare. Persi amici, parenti e
la comprensione di familiari. Ero fuori dal mondo e non mi capivano più,
né potevo pretenderlo, sapendo ciò che avevo dentro e che
mai sarei riuscito a descrivere. Dimenticai quasi Dio e anche se mi rivolgevo
con pianti e lamenti interminabili, lo sentivo lontano; di una lontananza
che non si misura a chilometri, ma a negazioni; cioè qualcosa diceva
no a Dio, al bene, alla vita, a me. Pensai di rivolgermi a un ospedale perché
supponevo che la febbre che avevo da mesi dovesse per forza dipendere da
una causa fisica e, tolta quella, sarei stato meglio; e poi qualcosa dovevo
pur fare. A Roma, solo per febbre, nessun ospedale mi voleva ricoverare
e dovetti andare lontano 300 chilometri, dove stetti per venti giorni, sottoposto
ad esami e prelievi di tutti i generi. Uscii con un nulla di fatto e una
cartella clinica che avrebbe fatto scoppiare d’invidia un’atleta:
ero sano come un pesce, ma una postilla diceva che nessuno si spiegava la
febbre e la faccia gonfia e cadaverica. Ero bianco come i fogli di un quaderno.
Appena uscii dall’ospedale, dove tutti i miei mali s’erano un
po’ attenuati, entrai in una crisi fortissima, vomitai più
volte, soffrii tutto ciò che è possibile soffrire per un uomo
e mi ritrovai in un punto sconosciuto della città; come ci ero arrivato
non lo so; le gambe camminavano da sole, le braccia erano indipendenti dalla
volontà e così il resto del corpo. Fu una sensazione: orribile;
comandavo agli arti che non mi ubbidivano più; non auguro a nessuno
di provarlo. Come se non bastasse ritornò il buio che, questa volta,
si estese dall'anima anche al corpo. Vedevo tutto come di notte ed era giorno
pieno. La sofferenza era arrivata alle stelle; cominciai a gridare, a contorcermi
in terra come se avessi il fuoco dentro e invocai la Madonna gridando: «Mamma,
mamma, abbi pietà... Madre ti supplico! Madre mia, grazia per me
che muoio». I dolori non si attutirono e la sofferenza era talmente
esasperata che persi anche il senso dell'orientamento e, strusciando sui
muri, arrivai a una cabina telefonica; riuscii a comporre il numero urtando
la testa sui vetri e sul telefono; mi rispose l'unica persona che conoscevo
e che venne per riportarmi a Roma. Prima che arrivasse capii, come per un
insegnamento esterno, che ero stato a vedere l'inferno; non a toccarlo o
a viverci dentro, ma solo a vederlo da lontano. Quell'esperienza cambiò
la mia vita […] Ancora però non pensavo a realtà ultraterrene,
ma spiegavo tutto con motivi psicologici: disadattamento, padre oppressivo,
traumi infantili, shock emotivi e varie altre cose che, come un bel disegno,
spiegavano molto bene il perché dell'accaduto. Avevo studiato psicologia
per cinque anni come autodidatta e così ero riuscito a formulare
uno schema secondo il quale era ovvio che soffrissi. Il giorno della Madonna
del Buon Consiglio, e per questo ci credetti avendola invocata, un frate
mi consigliò di telefonare a un carismatico che agiva sotto la stretta
tutela di un vescovo e aveva il dono della conoscenza. Costui mi disse:
«Ti hanno fatto una fattura a morte per colpire la mente e il cuore
e otto mesi fa hai mangiato un frutto maleficiato». Scoppiai a ridere
non credendo a una sola parola; ma poi, riflettendo, sentivo dentro di me
riaccendersi la speranza. Avevo dimenticato questa sensazione e pensai al
frutto descritto e a otto mesi prima. «E vero, dissi, ho proprio mangiato
quel frutto», e ricordai pure che non volevo mangiarlo per una istintiva
repulsione verso la persona che me lo offriva. Tutto corrispondeva e allora
ascoltai anche il consiglio sul rimedio suggeritomi, cioè le benedizioni.
Cercai un esorcista e dopo le varie risate dei preti o dei vescovi e le
umiliazioni che mi infersero, dalle quali scoprivo un aspetto della Chiesa
deturpato dai suoi stessi pastori, approdai a don Amorth. Ricordo quel giorno
molto bene; non sapevo ancora cosa fosse una benedizione particolare: pensavo
a un segno di croce, come fa il prete dopo la messa. Mi sedetti, lui mi
mise la stola intorno alle spalle e una mano in testa; iniziò a pregare
in latino e non capivo niente. Dopo un po' una rugiada fresca, anzi gelata,
mi scese dalla testa al resto del corpo. Per la prima volta, dopo quasi
un anno, la febbre mi lasciava. Non dissi nulla; lui continuò e pian
piano la speranza tornava a vivere in me, la luce del giorno tornava luce,
il canto degli uccelli non somigliava più a quello dei corvi e i
rumori esterni non erano più ossessivi, ma erano tornati semplici
rumori; vivevo infatti con i tappi alle orecchie perché il minimo
rumore mi faceva saltare. Don Amorth mi disse di ritornare e, appena uscito,
ebbi una voglia grande di sorridere, di cantare, di gioire: «Che bello,
dissi, è finita». Era vero, era tutto vero quello che avevo
provato: era la rabbia di «qualcuno» che mi odiava e non una
mia follia a farmi tutto quel male. «E vero, ripetevo da solo in auto,
è tutto vero». Oggi sono passati tre anni e pian piano, una
benedizione dietro l'altra, sono tornato normale e ho scoperto che la felicità
viene da Dio e non dalle nostre conquiste o dai nostri affanni. I1 male,
la cosiddetta sfortuna, la tristezza, l'angoscia, il saltellio delle gambe,
l'irrigidirsi dei nervi, l'esaurimento nervoso, l'insonnia, il timore di
schizofrenia o di epilessia (avevo avuto infatti alcune cadute) e tante
altre malattie, di cui ero vittima, sparivano al suono di una semplice benedizione.
Sono tre anni che io ho prove su prove che dimostrano, solo a me naturalmente,
che il demonio esiste e agisce molto di più di quello che crediamo
e che fa di tutto per non farsi scoprire fino a convincerci che siamo malati
di questo o di quello, mentre è lui l'autore di ogni male e trema
davanti a un prete con l'aspersorio in mano. Questa mia esperienza l'ho
voluta descrivere per invitare quanti la leggeranno a prendere in esame
questo aspetto della nostra vita che io, purtroppo, ho sperimentato in pieno.
Sono, a conclusioni fatte, felice che Dio abbia permesso questa enorme prova
per me, perché ora comincio a godere i frutti di tanta sofferenza.
Ho l'animo più puro e vedo ciò che prima non vedevo. Soprattutto
sono meno scettico e più attento alla realtà che mi circonda.
Credevo che Dio mi avesse lasciato e invece era proprio allora che mi stava
lavorando, per prepararmi a incontrarlo. Con questo scritto voglio anche
incoraggiare quelli che sono malati come sono stato io a non perdersi d'animo
perché, anche se sembra evidente, non bisogna credere neanche all'evidenza,
cioè che Dio ci abbandona. Non è così e a cose fatte
se ne ha la prova. Basta perseverare, anche se per anni. Devo inoltre fare
una precisazione e cioè che le benedizioni hanno un effetto tanto
più intenso quanto più Dio lo vuole e non dipendono dalla
volontà dell'esorcista o del l'esorcizzato; e che questa intensità,
secondo la mia esperienza, dipende molto di più dalla volontà
di conversione del soggetto che dalle pratiche esorcistiche. La confessione
e la comunione valgono come un grosso esorcismo. Nelle confessioni in special
modo, se ben fatte, io ho provato l'immediata scomparsa dei tormenti sopracitati;
e nelle comunioni, una dolcezza nuova che non pensavo potesse esistere.
Anche anni fa, prima di tutte quelle sofferenze mi confessavo e facevo la
comunione; ma non soffrendo, non potevo vedere, se così posso dire,
da che cosa ero reso immune. Ora lo so e invito soprattutto i tiepidi a
credere che Dio è realmente presente alla porta del confessionale
e nell'ostia, che spesso prendiamo con grande distrazione. Inoltre invito
gli scettici a credere, prima che «qualcuno» li aiuti per forza,
come è accaduto a me. Per finire, mi rivolgo con un invito ai poveri,
perché più di loro nessuno lo è, agli ossessi, agli
odiati da Satana, che si serve dei loro stessi conoscenti per ucciderli
o per opprimerli. Non perdete la fede, non rigettate la speranza, non sottomettete
la volontà alle suggestioni violente e ai fantasmi che il maligno
vi prospetta. Questo è il suo vero scopo e non quello di dare le
sofferenze o di procurare del male. Lui non cerca il nostro dolore, ma qualcosa
di più: e cioè la nostra anima sconfitta nel dire: «Basta,
sono un vinto, sono un balocco in mano del male; Dio non è capace
di liberarmi; Dio dimentica i suoi figli se permette tali sofferenze; Dio
non mi ama, il male è superiore a lui». Questa è la
vera vittoria del male alla quale dobbiamo rispondere, anche se non abbiamo
più fede, perché il dolore ce la offusca. «Noi vogliamo
volere la fede»; vogliamo volere; questa volontà i1 demonio
non può toccarla, la volontà è nostra; non è
né di Dio né del diavolo, ma solo nostra, perché Dio
ce l'ha donata quando ci creò; quindi dobbiamo dire sempre di no
a chi ce la vuole abbattere e dobbiamo credere (con S. Paolo) che «nel
nome (lì Gesù Cristo ogni ginocchio si piega, in cielo, in
terra e sotto terra». Questa è la nostra salvezza. Se non crediamo
con fermezza, il male che ci è stato imposto, cori malefici o con
fatture che siano, può durare per anni, senza miglioramenti. Inoltre,
per coloro che si credono ormai impazziti e non vedono rimedio, io posso
testimoniare che dopo molte benedizioni questo male passa come se non ci
fosse mai stato; perciò non dobbiamo temerlo, ma lodare Dio per la
croce che ci dà. Perché dopo la croce c'è sempre la
risurrezione, come dopo la notte viene il giorno; tutto è creato
così. Dio non mente e ci ha prediletti per accompagnare Gesù
nel Gethsemani, a far compagnia al suo dolore per risorgere con lui. Offro
a Maria Immacolata questa testimonianza perché la faccia fruttificare
per il bene dei miei fratelli di dolore. Rispondo con l'amore, il perdono,
il sorriso e la benedizione a coloro che sono stati strumenti del diavolo
per darmi il martirio che ho patito. Prego che la mia sofferenza faccia
loro intravedere la luce che anch'io ho ricevuto gratuitamente dal nostro
Dio meraviglioso.
G. G. M.
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA