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Lo Spirito e la fantasia salvata: da Tolkien a Francesco d'Assisi
Tra Spirito e superstizione: come cambia la religiosità nel terzo millennio

p. Guglielmo Spirito OFM Conv.


C’è un grande autore irlandese John O’ Donohue che, nel suo libro Anam Cara, il primo dei suoi libri più famosi, facendo una sorta di gioco di parole in inglese, dice: “Belonging is related to longing” (1) , “l’appartenere è in rapporto con il cercare, con l’essere in cerca”. Per una vera e sana crescita spirituale basta dividere la parola “ Belonging”: Be-Your-Longing cioè “sii la tua cerca”. Infatti è seguendo gli aneliti che mettono in moto il nostro mondo interiore, che potremo recuperare in pienezza chi noi realmente siamo. Dato che le nostre potenzialità, insite in noi, sono nascoste anche ai nostri occhi, l’avventura dell’uomo sulla terra è una continua “cerca”: questo anno 2005 anche l’incontro dei giovani a Colonia è sotto il segno dei Magi e quindi sintetizza questo essere in cerca di qualcosa (o di Qualcuno) che possa dare pienezza alla propria vita. Questo desiderio di fondo è prettamente umano e assolutamente legittimo e sottostà a tutte le ricerche (sballate o meno) che si fanno. Anche quando si prende coscienza del doveroso bisogno di cercare un antidoto allo sbandamento, alla malvagità, alla magia, alla superstizione, non bisogna dimenticare che chi ricerca quelle vie, nonostante siano vicoli senza uscita, sta rispondendo ad un bisogno legittimo di ricerca.
Qualche anno fa nella lettera enciclica Redemptoris missio Giovanni Paolo II diceva:

Il nostro tempo è drammatico e insieme affascinante. Mentre da un lato gli uomini sembrano rincorrere la prosperità materiale e immergersi sempre più nel materialismo consumistico, dall'altro si manifestano l'angosciosa ricerca di significato, il bisogno di interiorità, il desiderio di apprendere nuove forme e modi di concentrazione e di preghiera [... ] questo fenomeno del «ritorno religioso» non è privo di ambiguità, ma contiene anche un invito .(2)

Non è mancato chi lo aveva già previsto:

Romano Guardini descrivendo l’epoca moderna aveva già intuito il prossimo verificarsi di una metamorfosi religiosa. Dopo il cristianesimo, annotava, si sarebbe affacciato in Europa un nuovo politeismo pagano nel quale nuovi dei avrebbero preso il posto degli antichi e nuove forme di credenza e di fanatismo avrebbero sconvolto il mondo. Egli si riferiva all'ideologia nazista e alla sua caratterizzazione religiosa con simboli e formule ben precise che scimmiottavano la croce e il Santo, ma in qualche modo spingeva lo sguardo anche oltre i suoi giorni. Intravedeva fra le conseguenze della modernità l'avvento di un nuovo paganesimo che di fatto si è realmente affermato. Non si tratta più del culto religioso dell'antichità, quanto piuttosto di un nuovo sentimento entusiastico e politeistico, la cui collocazione dopo Cristo lo rende oltre modo inquietante. L'antica credenza negli elementi del mondo e in figure prodotte dal desiderio umano di sicurezza e senso era il segno indelebile di un'attesa. Attestava il bisogno dell'uomo di incontrare Dio e prefigurava il salvatore. Il neopaganesimo contemporaneo, invece, è regressivo - prendendo in prestito una terminologia tipica della psicologia. Esso intende debellare la forza stravolgente del vangelo e annullare la pretesa di Gesù Figlio di Dio, senza polemiche accese e senza scontri frontali, ma semplicemente riconquistando l'uomo a partire dalla sfera delle emozioni e sapendo ad arte manipolare il bisogno di senso e di autorealizzazione. (3)

Stava iniziando a prodursi una sorta di metamorfosi religiosa nell’occidente nel senso più vasto e questo fenomeno si è acutizzato in questi ultimi anni: i cuori sono come allo sbando dato che sono venute meno tutte le certezze, le ideologie e viene fuori un po’ di tutto. Però l’urgenza di questo desiderio di pienezza di interiorità e di senso è sempre più forte.

Per la Chiesa l’ostacolo maggiore per l’annuncio può essere quello di rivolgersi a persone che non sanno di aver bisogno di qualcosa: non c’è cosa peggiore che voler aiutare chi non crede di aver bisogno d’aiuto. (4)

Un problema è che moltissimi dei nostri contemporanei non sono pienamente consapevoli di aver bisogno di qualcosa, cercano, ma non sanno esattamente cosa stanno cercando e soprattutto non sanno come cercare. Essendo pienamente diffusa la mentalità consumistica del fai-da-te e del super market, si fa il self-service, si diventa tanti Robinson Crusoe . Per plasmarsi come uomo e per raggiungere la felicità è molto pericoloso immaginare che uno ha le potenzialità di iniziare da zero o che uno può essere maestro di se stesso. Però nel post-moderno,(5) con il pensiero debole, di veri maestri sembra che ce ne siano davvero pochi, mentre i bisogni sono così acuti che ognuno fa quello che vuole. La grande galassia del New age risponde, forse male, ma risponde, a questo bisogno.
Una cosa preoccupante in questa forma di ricerca diffusa è che il problema del male, della sofferenza e della morte non vengono mai apertamente trattati, vengono molto soavemente dribblati, attutiti in una maniera molto soft.

Dietro alla larga diffusione di questo miscuglio prepotente di idee che è il New age e che appare così versatile da soddisfare tutte le esigenze, sorge la domanda: come mai nessuno dei simpatizzanti di questa visione del mondo e della divinità si interroga sulla mancanza di una risposta convincente al problema della morte e del male? (6)

Lo scandalo drammatico della parte oscura dell’esistenza o delle pesantezze della vita non viene considerato in questi sistemi di pensiero debole. Nel campo di gente un pochino più consistente, di quelli che si autodefiniscono credenti, risulta che, alle volte, hanno così bene mascherato il proprio Dio, che uno stupendo teologo francese, Oliver Le Genere, in un libro straordinario Le maschere di dio, afferma:

Gli uomini hanno mascherato il loro dio a furia di amarlo male e di amare se stessi con troppo compiacimento. Ritagliato sulla dimensione delle loro preoccupazioni, questo dio ha smesso di sorprenderli. Le parole per parlare di lui si sono ricoperte di uno strato così spesso di polvere e si sono caricate di una tale noia che han finito per essere i più sicuri assassini di colui per il quale erano state inventate. II dio nel quale il non credente non crede e il dio nel quale il credente crede sono pallide copie dell'originale. Sono il risultato del lavoro maldestro di una stirpe di falsari senza genio che, generazione dopo generazione, copista dopo copista, han finito per accumulare una stupefacente collezione di ritratti approssimativi dai colori sbiaditi e dal tratto esitante. Questi dèi, che non amo, finiscono per imprigionare i loro fedeli nella noia. Suscitano conformismo, timore sistematico, abitudine ben radicata. Ispirano sentimenti da padrone ai fedeli che amano più la propria fede del dio cui la rivolgono. (7)

Tutto ciò complica ancora di più le cose. Nonostante questa sorta di nebbia (o perfino di palude), ogni tanto, a chiunque può capitare di sperimentare un momento di nostalgia, di grazia, di vicinanza, di qualche spiraglio di luce e questo dà sempre la possibilità di incentivare quei momenti di luce.

Quei momenti, quando si intuisce che c’è di più, che potrebbe esserci di più. Quei momenti di grazia, quando il cielo è più chiaro; quegli istanti che non sono di nostalgia ma di fremito e di timido tremore. Tremore davanti alla forza che intuisco e che mi tocca con la sua ala, fremito di un richiamo appena udibile, ma così certo nel momento in cui naviga sul silenzio. Certezza del momento ed incertezza del momento seguente che si mescolano e mi lasciano la libertà di crederci o di dubitarne . (8)

Il più sottile filo d’erba su cui brilla la goccia di rugiada mattutina, l’umile muschio che ricopre come un tappeto la pietra, a modo loro, svelano l’essere; permettono di dare uno sguardo, anche se veloce, allo splendore dell’esistente, del reale:

Dovunque io volga lo sguardo, vedo una profusione di forme che sfugge alla mia comprensione: la dura pietra che tengo nella mano è un condensato di atomi percorsi da un moto perpetuo; la foglia della pianta è una straordinaria officina vivente. I fiori di ogni specie, tutti così fantastici e meravigliosi, per quale motivo ostentano la loro bellezza? E questo animale che saltella con una leggerezza e una grazia incomparabili, per chi mostra questa sua esultanza?
Il più sottile filo d'erba su cui brilla la goccia della rugiada mattutina e l'umile muschio che ricopre come un tappeto la pietra sono altrettante rivelazioni improvvise e solenni dell'essere. Cos'è questo esistere in un certo modo e non in un altro, questo crescere, questo fiorire, questo olezzare, questo moltiplicarsi in modo rigoglioso e lussureggiante? E io uomo, smarrito in questa foresta di simboli, percepisco in me, intimamente colpito e stupefatto, il fruscio primordiale della materia e della vita. Materia così vicina a me, perché io stesso ne sono formato; così estranea e lontana, perché non riesco a comunicare con essa. A questa prima e fondamentale esperienza si aggiunge la meraviglia suscitata dallo splendore, dalla bellezza dei luoghi e dei paesaggi: slancio e imponenza delle montagne, armonia riposante delle valli e delle colline, fascino e forza impetuosa dei fiumi e dei mari, ordine ed equilibrio delle creazioni dell'uomo.
Alzando gli occhi vedo l'impenetrabile azzurro, quando splende il sole, e di notte, «nel silenzio degli spazi infiniti» (Pascal), lo scintillio delle stelle e delle galassie. Ciò che raggiunge il mio sguardo è nulla in confronto a ciò che riescono a concepire il pensiero e 1'immaginazione. «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita.., che cosa è l'uomo? ...» (Sal. 8,4-5). Sì, che cosa è l'uomo, cosa sono io in questa inimmaginabile immensità di tenebre e di fuoco, la cui distesa è di miliardi e miliardi di anni-luce? (9)


C’è stato un prete ortodosso russo, Aleksandr Men’ il quale, con molta semplicità, aveva sottolineato che il cuore dell’uomo ha un anelito verso l’alto e non riesce mai a possedere il mistero e cerca in ogni modo come di creare dei collegamenti che gli permettano di sentirsi a proprio agio nel mondo e di scendere a patti con questo mondo misterioso: gli dei sarebbero come gli intermediari di questo patto, di queste trattative tra l’uomo e il mondo misterioso; certo non è così che il Dio della rivelazione si rapporterà con l’uomo.

Nonostante la nostra incapacità di possedere il mistero, nel cuore dell'uomo questo arcano anelito verso l'alto non si è mai spento. Egli ha sempre cercato di superare la distanza che lo separa dal cielo, di legare la sua vita con l'«altro» mondo. In conseguenza di questa contraddizione, nell'umanità continuarono a coesistere due fedi opposte ma strettamente legate l'una all'altra: la fede nell'Ineffabile e la fede nelle divinità naturali. Queste ultime parevano essere più vicine all'uomo, giacché con esse si poteva stabilire un contatto diretto. Si credeva che esistessero degli strumenti magici per mezzo dei quali l'uomo poteva influire sui demoni e sugli spiriti. Questa visione utilitaristica della religione fu certamente quella dominante per migliaia di anni. Il politeismo e la magia cercavano in questo modo di colmare il vuoto che separava la terra dal cielo.
Questa contraddizione fu superata per la prima volta dalla rivelazione biblica. La Bibbia infatti parla di un Dio santo, cioè infinitamente superiore alla creazione, e parla nel contempo dell'uomo come immagine e somiglianza di questo Dio. Tale misteriosa parentela tra lo Spirito infinito e uno spirito finito, secondo la Bibbia, rende possibile un patto, un'alleanza tra essi.
L'alleanza, dunque, è la via di unione dell'uomo non con gli dei, ma con la stessa Origine trascendente che esiste al di sopra del cosmo. (10)

In ogni spiegazione del mondo, in ogni cosmogonia, in ogni racconto mitico, incluso il grandioso, reale mito cristiano, c’è una caduta. Tanto che Chesterton diceva che la buona notizia del Vangelo consiste nell’annunciare che c’è stato il peccato originale; ed è una buona notizia, perché la realtà che conosciamo, in noi, attorno a noi, nella storia, con tutta la pesantezza e la sofferenza che ha, non è né il progetto originale per l’esistenza né il destino finale dell’esistenza.
C’è stata una caduta: il New age questo non lo sa e forse è l’elemento di miopia o di cecità più grave, perché il fatto che siamo decaduti da quello che possiamo essere, è una sorta di dato esperienziale. Ognuno conserva nel cuore come la percezione di quello che potrebbe dare una felicità compiuta, sogna e, in un certo modo, percepisce che gli risulterebbe connaturale quell’armonia e quella perfezione, quindi aspira a qualcosa con una certa nostalgia (11) come se fosse stato in quel posto, anche se non sa di che cosa specificamente si tratta, ma allo stesso tempo sperimenta che è fuori dall’armonia.
Nel genere letterario mitico-sapienziale della Genesi (12) “siamo fuori dal giardino”, dal giardino come punto ideale di armonia di bellezza… Noi siamo fuori dal giardino e questo è un dato esperienziale e tutte le fatiche della vita sono come per cercare di rientrare.
Nel Silmarillion, il corpo mitico che sta dietro Il Signore degli Anelli, l’inviato di Melkor, il vero signore oscuro, cerca di convincere gli uomini che in fondo tutti i sogni di fedeltà, di bontà sono tutte menzogne che imprigionano l’uomo e che la vera libertà sarà, quando loro riusciranno a staccarsi dalle indicazioni che vengono da Eru e riconosceranno che la sorgente di tutto è l’oscuro signore . (13) Questo principio è alla base del dramma della razza umana: ovviamente questa è una creazione letteraria, però esprime molto bene la situazione nella quale ci troviamo. Nessuno di noi qua è compiutamente felice. Nessuna delle stupende filosofie del periodo imperiale né il neopitagorismo, né il neoepicureismo, né il neostoicismo, né il neoplatonismo è riuscita a tranquillizzare il cuore davanti al fatto che non riusciamo ad essere pienamente felici.

Questo permette di essere ragionevolmente sicuri, anche se uno non fosse credente, dato che è un dato esperienziale che nello spessore del reale c’è una sorta di frattura, che le cose non sono come dovrebbero essere e noi non siamo quanto possiamo essere. Quando una persona è geniale, in qualsiasi campo creativo, riesce ad attingere dal reale tutto quello che lui riproduce, sia in musica, sia in scultura, sia in architettura, poesia, letteratura. Perciò Tolkien ama definirsi sub–creatore: tutta la sua creazione è così splendidamente eloquente ed è così eloquente, appunto, perché semplicemente scaturisce dal reale. (14)

Leggendo Il Signore degli Anelli uno può vedere che le cose sono così anche nel mondo reale, nel mondo primario, come dice lui, tanto quanto sono reali nel mondo secondario, nel mondo della finzione letteraria. Se non fosse così non si capirebbe come mai hanno un successo così stravolgente sia il libro, sia il film: le cose che non c’entrano con la nostra realtà umana, quello che non mi tocca in qualche misura a titolo personale, non mi interessa. Se uno si sente coinvolto, si sente “dentro”, è perché, in qualche misura, mi si sta svelando qualcosa in cui io sono calato completamente. Questa è una delle funzioni straordinarie che ha, tra tante altre facoltà dell’uomo, la fantasia. Quando Dostojeski scriveva che la bellezza salverà il mondo, intendeva anche che la bellezza è di per se terapeutica e, se l’uomo deve essere riconsegnato alla sua piena salute, lo deve essere in tutte le sue facoltà, intelligenza, volontà, memoria, corporeità, ed anche fantasia, perché il nostro modo di rappresentarci interiormente le cose, con le quali poi viviamo, filtrerà molto i nostri sentimenti, le nostre emozioni, le nostre reazioni. Quindi, quando riceviamo un aiuto per risanare anche il nostro mondo immaginifico interiore, abbiamo fatto un passo in avanti, è un supporto per una sanità più integrale. Questa è la valenza terapeutica, ai miei occhi, principale che ha la genialità di Tolkien e che si respira in contatto con la sua opera: è come se il reale rifluisse dentro e ci si sentisse più “energizzati” per la vita reale; non si scappa via in un mondo virtuale, ma, al contrario, si gustano di più le cose. Se questo è vero, cioè che la sub–creazione è efficace e terapeutica appunto perché scaturisce dalla creazione in sè, e che la genialità di Tolkien è così sanante per il nostro mondo che apre o stabilisce un ponte tra la realtà esterna e la nostra capacità percettiva e perfino con la nostra vulnerabilità e fragilità; se lui ha percepito così bene le cose e le trasmette così bene, questo vale, purtroppo, anche per le cose oscure. Non tutto è Lorien ne Il Signore degli Anelli, non tutto il Bosco d’oro dove dimora Galadriel, non tutto è la pacifica Contea (romagnola) dove si mangia bene. Gli elementi di oscurità presenti nel testo, anche quelli, riflettono il reale. Cosa che, normalmente, chi si butta nei giochi di ruolo o cose del genere non percepisce. E’ indubbio che sia stupendo tuffarsi dentro ed è molto bene fare una mangiata Hobbit, non c’è dubbio, ma il realismo delle cose oscure?

A Colle Vento Frodo viene ferito dal pugnale dell’ antico re di Agmar; Aragon trova un pezzo del mantello:

« Guardate! », esclamò, e si chinò per raccogliere un manto nero a terra, nascosto sino allora dall'oscurità. A dieci pollici dall'orlo vi era uno squarcio. « Questo è il colpo di spada di Frodò» disse. « L'unica lesione subita dal nemico, temo; infatti la spada è intatta, mentre tutte le lame che feriscono il corpo di quell'orrendo re vanno in frantumi. Più infausto per lui è stato il nome di Elbereth. E più infausto per Frodo è stato questo! ». Si curvò nuovamente e raccolse un lungo coltello aguzzo. Ardeva di una luce fredda. Quando Grampasso lo tenne in mano, videro che vicino a11’estremità la lama era intaccata e che la punta era rotta. Ma guardandolo meglio, alla luce dell'alba che avanzava, rimasero sbalorditi, perché la lama parve squagliare, e svanì come fumo nell'aria: in mano, Grampasso stringeva ormai solo l'elsa. « Ahimè! », esclamò. « È stato questo maledetto pugnale a provocare la ferita. Pochi sono quelli il cui potere di guarigione può combattere armi sì malefiche. Ma farò ciò che posso ». Si sedette per terra e posò l'elsa del pugnale sulle sue ginocchia, cantandole una lenta canzone in una lingua arcana. Poi la mise da parte e, voltatosi verso Frodo, gli disse in un tono di voce soave delle parole che nessuno capiva. Dalla borsa attaccata alla sua cinta trasse lunghe foglie…. L'erba aveva anche qualche potere sulla ferita, poiché Frodo sentì diminuire il dolore ed anche il senso di freddo glaciale, benché il braccio rimanesse inerte ed egli fosse incapace di alzare o adoperare la mano. Rimpianse amaramente di essersi comportato da sciocco e si rimproverò la propria debolezza: si rendeva conto infatti che infilando l'Anello aveva obbedito non alla propria volontà ma al desiderio dei suoi nemici. (15)

Chiara è la descrizione, che Tolkien fa, dello stato progressivo di malessere di Frodo:

Frodo si gettò per terra, e vi rimase disteso e tremante. Il suo braccio sinistro era privo di vita, ed il fianco e la spalla sembravano attanagliati da artigli di ghiaccio. Vedeva gli alberi e le rocce intorno a lui come annebbiati ed indistinti. (16)
Il dolore di Frodo era raddoppiato, e durante il giorno il mondo intorno a lui si era sbiadito a tal punto da non costituire altro che un insieme di ombre di un grigio spettrale. Accolse quasi con sollievo l’arrivo della notte, perché essa faceva apparire meno pallido e vuoto ciò che lo circondava. (17)

Pavel Florenskij, uno dei più grandi autori russi del XX secolo, riporta un caso (18) del quale aveva avuto esperienza diretta, ed è una descrizione che somiglia molto a quella di Frodo. Gabriele Amorth, l’esorcista, nel suo libro “Un esorcista racconta”, riporta una testimonianza autobiografica (19) di un ragazzo liberato da quest’esperienza qualche anno fa e sembra tratta da Colle Vento, una descrizione pari, pari di tutte le sensazioni di freddo crescente, di annebbiamento, di immobilità di panico, di terrore, di oscurità. Cito questi due autori semplicemente perché riportano casi reali. La genialità letteraria nel descriverli, magari fosse soltanto una realtà letteraria! Queste cose esistono nel vero. Anche se è pur vero che, ordinariamente, il nostro contatto con le cose oscure è meno vistoso.

I nostri demoni, né troppo criminali né troppo scandalosi, semplicemente i demoni che ci siamo scelti per aiutarci a vivere nella solitudine della nostra sufficienza. Non avevamo nulla da fare, bisognava tenerci occupati: la nostra anima sonnecchiava: ci sembrava normale trovare degli svaghi per i nostri corpi e i nostri spiriti. Demoni piccoli o grandi, ambizione e ricchezza, potere e disprezzo, infedeltà di ogni tipo, sofferenza inflitta o semplicemente dolore spiegato davanti a noi senza che i nostri occhi battano ciglia al suo spettacolo, né che le nostre mani facciano carezze, o che le nostre parole diventino rimedio. A che serve citare tutti i demoni dell'uomo'' Ciascuno se li è scelti secondo la propria convenienza. Non serve a nulla inventariarli, più di quanto non serva attaccarli frontalmente. I demoni vivono solo del vuoto della nostra anima, della sua sonnolenza, della sua sufficienza. La nostra anima ha orrore del vuoto, lo riempie con ciò che le capita sotto mano. Voler attaccare i nostri demoni lanciando loro una sfida non porta a nulla, poiché è il vuoto della nostra anima a essere il più forte, in ogni caso; è lui che ci governa.
Non abbiamo mai l'ultima parola davanti ai nostri demoni, perché, se ci capita di farne retrocedere uno, il vuoto che ha lasciato ne richiama ben presto un altro, se non addirittura quello stesso che era stato allontanato - non poi così tanto, ed anzi ben disposto a riprendere il suo servizio, senza rancore né rimprovero. Il demone ha questo di particolare: viene realmente scacciato solo se gli si occupa il posto, se lo si soffoca nello spazio in cui svolazza…. Non c’è lotta nell’anima dell’uomo, c’è solamente un problema di spazio. Fin che non c’è nient’altro per occupare lo spazio della sua anima, l’uomo vi accoglie i suoi piccoli o grandi demoni, ma quando giunge a lasciarvi entrare la soglia d’altro, la sete d’altra cosa, quando desidera che l’angelo lo visiti più spesso, allora i demoni si fanno da se stessi più modesti, si ripiegano su di sé, aspettando giorni migliori. (20)

Lo smarrimento assoluto, l’assenza assoluta di forma o di sostanza è insopportabile anche psicologicamente, anche spiritualmente e metafisicamente.

Lungo le strade che conducono a Dio si cammina talvolta di giorno, talvolta di notte. L'esperienza positiva, cioè il rimanere improvvisamente abbagliati, la percezione di una presenza che, anche quando si nasconde, affascina e appaga, è la luce del giorno. La superficie delle cose, uguale, comune e banale, s'infrange e lascia trasparire il mistero dovunque presente. Così, sepolta nel più profondo del reale, esiste una realtà sovrana, la sola che sia vera, bella e viva. Basta che il cuore la intraveda, anche per un solo istante, perché il fascino e la ferita che essa produce non si cancellino mai più dalla memoria. E tuttavia questa esperienza, quali che siano la sua intensità e la gioia ch'essa procura, è solo un approccio. Non è la percezione dell'impercettibile, non dona Dio alla nostra fruizione. Dio è sempre «Tutt'Altro», sempre «altrove»; nessun presagio, nessuna esperienza si identifica con il mistero di lui. Bisogna proseguire senza fermarsi in nessuna tappa, senza attaccarsi a nessuna immagine. E così che viene affrontato il percorso notturno della strada. (21)

Lungo le strade della vita non ci sono solo canti elfici sotto le stelle, ci sono tanti ostacoli nella vita che toccano una zona di confine tra la luce e le tenebre. Che ci piaccia o non ci piaccia, è così. Potremmo dire non ci interessa, ma non ci sono, purtroppo zone neutre.

Il presentimento del mistero, che infrangendo l'insignificanza delle cose in mezzo alle quali camminiamo di quando in quando ci stimola e ci sollecita, non è un'illusione. È il pane che fortifica il pellegrino nella traversata del deserto. Anche la parola di Dio accolta nella fede e celebrata nei sacramenti è vera, salda e sicura: possiamo e dobbiamo trovar sostegno in essa. Ma l'illusione comincia quando il segno, anche se pregnante della realtà, viene preso per la realtà stessa, quando ci riposiamo nel segno e rifiutiamo di procedere oltre. E grande la tentazione di compiacersi dell'esperienza, per quanto modesta possa essere, di gioirne per davvero, di ritenerla nella propria memoria come un'acquisizione definitiva. E’ lo stesso cammino e, ungo il cammino, il soccorso di una mano potente che ci faranno uscire dalle illusioni. Ciò su cui contavamo, che costituiva la nostra gioia, dolce ferita, sostegno delle nostre certezze, ci sarà sottratto, sia insensibilmente, a poco a poco, sia bruscamente. (22)

Quindi è urgente uscire dall’illusione. E’ una sorta di schizofrenia: mentre guardiamo i telegiornali, ci accorgiamo di cosa può fare l’uomo all’uomo, poi nella nostra vita privata ci costruiamo tutto un mondo fantasioso, pensando che quello non ci riguardi interiormente e che non ci sia alcun tipo di interazione con quelle “bassure” dell’uomo più cattivo; magari fosse vero! Nel mondo secondario de Il Signore degli Anelli o del Silmarillion lo si coglie molto bene. E non solo lì:

Lucrezio vedeva già dappertutto i sintomi e 'autunno e mondo, preludio della sua decadenza e fine. Idee simili si diffondevano largamente non solo in Occidente, ma anche in India e in Cina.
Ma la natura stessa del suo spirito non permette all'uomo di arrendersi così facilmente a quest'idea dell'insensatezza dell'essere; così, pur avendo perso la fede in tutto, la gente rifiutava di vedere la vita come un lampo della materia, al quale necessariamente avrebbero fatto seguito le tenebre. Ecco perché, quando vennero a contatto con le religioni orientali, i romani ne provarono una fortissima attrazione. L'Occidente fu letteralmente conquistato dai più vari culti stranieri: la dea egiziana Iside ebbe le preghiere dei sudditi romani dalla Britannia ai Balcani, a Roma sorsero sinagoghe ebraiche, templi della dea-madre della Frigia Cibele, del dio persiano Mitra. Predicatori vaganti annunciavano verità che giungevano dalle rive del Gange, dalla Partia, dall'Asia centrale; riebbero popolarità le sacre rappresentazioni greche che promettevano ai partecipanti l'immortalità e la conoscenza di mondi superiori. L'occultismo, l'astrologia, la magia e ogni sorta di chiromanzia trovarono devoti accoliti in tutte le classi sociali; la brama di mirabilia fece crescere le superstizioni e la ciarlataneria.
A questo spettacolo, coloro che erano propensi allo scetticismo dovettero perdere del tutto la speranza di conoscere il senso della vita; giunsero certamente alla conclusione che all'eterna domanda dell'uomo: «Che cos'è la verità», non c'è risposta. Insomma, lo sbaraglio delle idee era totale. Sotto uno stesso tetto potevano convivere mania di sensazioni mistiche e assoluto agnosticismo, anelito alla purezza e sbandamento morale. Non erano rare le famiglie in cui il padre si rinchiudeva in uno stoico disprezzo delle vanità del mondo, la madre frequentava assiduamente riti notturni di settari, il figlio inventava sempre nuovi tipi di piacere e cercava forti emozioni. L'uomo, insomma, era giunto a un bivio, e da ogni direzione sentiva delle voci che lo invitavano: «Sii indifferente alle gioie e alle tristezze della vita, immergiti nella meditazione», gli dicevano i buddisti e gli stoici; «Vivi secondo natura, come tutti gli altri esseri», insegnavano i filosofi cinici e gli epicurei; «La felicità è nel sapere e nella meditazione», obiettavano gli empirici; «Purificati con riti segreti e giungerai all'immortalità», assicuravano i vari occultisti; «Sii fedele al Dio uno e rispetta la sua Legge», annunciava la religione di Israele. E l'aquila romana, sempre alla ricerca della preda, planava su questo vortice di spiritualità in cui, come nel caos primordiale, si mescolavano principi contraddittori. Di tanto in tanto rinverdiva la speranza che sarebbe apparso qualcuno che avrebbe fatto uscire l'umanità da questo labirinto. (23)

Io sono convinto, come Tolkien era convinto, che anche nel mondo primario questo sia vero, tranne che uno voglia, di fronte alla domanda “cos’è la verità?” sostenere che non c’è risposta, non c’è salvezza, ma poi va a consultare l’oroscopo per vedere chi lo protegge domani. Soluzione alquanto fasulla. Dall’altro canto il mondo misterioso è affascinante e entrarci dentro è anche legittimo, come, per esempio, quando Galadriel invita Frodo e Sam a guardare nello Specchio:

Con l’acqua del ruscello Galadriel riempì la vasca sino all’orlo, e vi soffiò, e quando l’acqua fu nuovamente calma, disse: “Questo è lo Specchio di Galadriel. Vi ho portati qui affinché possiate guardarvi, se lo desiderate”. L’aria era molto tranquilla, e la conca molta oscura e la Dama Elfica accanto a lui era alta e pallida. “Che cosa dobbiamo cercare, e che cosa vedremo?”, domandò Frodo pieno di meraviglia. “Molte cose comando allo Specchio di rivelare”, rispose ella, “e ad alcuni posso mostrare ciò che desideri vedere. Ma lo Specchio può anche spontaneamente mostrare immagini, che sono spesso più strane e utili di quelle che noi stessi desideriamo vedere. Non vi so dire quel che potrete mirare, lasciando lo Specchio libero di creare. Esso infatti mostra cose che furono, e cose che sono, e cose che ancora devono essere. Ma quali tra queste egli stia vedendo, nemmeno il più saggio può sapere. Desideri guardare?”. Frodo non rispose. “E tu?”, disse rivolgendosi a Sam. “Questo è ciò che la tua gente chiamerebbe magia, suppongo; non comprendo tuttavia ciò che intendo dire, poiché sembra che adoperino la stessa parola anche per gli anni del Nemico. Comunque sia, codesta è, se vuoi, la magia di Galadriel. Non dicesti forse che desideravi vedere un po’ di magia elfica?”. (24)

Purtroppo Galadriel è partita e Gandalf con lei, non rimane magia elfica a nostra disposizione. Cercare di vedere le cose così, sarebbe cercare di ricreare i palantir. E ricreare i palantir può essere molto pericoloso…

«I palantíri potevano parlare indistintamente tra di loro, ma ad Osgiliath li potevano sorvegliare tutti assieme allo stesso tempo. Ora parrebbe che la roccia di Orthanc che ha resistito a tutte le intemperie conservi ancora il suo palantír. Ma senza gli altri poteva vedere ben poco, solo piccole immagini di cose lontane e di giorni remoti. Ciò si dimostrò, senz'alcun dubbio, assai utile a Saruman; eppure evidentemente non gli bastava per renderlo soddisfatto. Guardò sempre più lontano verso ignoti paesi, finché posò lo sguardo su Barad-dur. Ed allora fu reso succube!
«Chissà ove giacciono ormai tutti gli altri globi: rotti, sepolti o profondamente sommersi? Sauron comunque ne deve aver scoperto uno, poi adattato ai suoi usi. Suppongo si tratti dell'Ithil-sfera, poiché s'impadronì di Minas Ithil molto tempo addietro, trasformandolo in un luogo infido: oggi si chiama Minas Morgul. « È facile immaginare con quanta rapidità l'occhio scrutatore di Saruman venne intrappolato e ipnotizzato, e come sia stato facile da allora persuaderlo da lontano e minacciarlo quando la persuasione non era sufficiente. Chi soleva mordere era stato morso, il falco dominato dall'aquila, il ragno intrappolato in una rete d'acciaio! E quale forza d’attrazione possiede! Non l’ho forse provata io stesso? Ancor ora il mio cuore desidera esercitare la propria volontà su di essa, per tentare di strapparla a Sauron e dirigerla là ove vorrei…oltre l’ampio mare d'acqua e di tempo che ci separa da Tirion la Splendida, per poter scorgere al lavoro l'ineffabile mano e spirito Feanor fra l’albero Bianco e l'Albero d'Oro in fiore!». Sospirò e tacque. (25)

E, se facciamo come Pipino, andiamo a sbirciare comunque:

« Se soltanto avessi saputo tutto ciò!», esclamò Pipino. «Non immaginavo nemmeno lontanamente quel che stavo facendo». «Invece lo immaginavi, eccome!», disse Gandalf. «Sapevi il tuo comportamento era errato e sciocco; in te una voce lo di ma tu non l'ascoltasti. Se non ti avevo detto nulla di tutto ciò sino t perché l'ho infine capito a furia di rimuginare sull'accaduto ad mentre galoppavamo insieme. Ma anche se ti avessi dato qual ragguaglio, il tuo desiderio non sarebbe stato più debole, né facile da respingere, anzi! No, la mano bruciata è la migliore lezio Dopo un'esperienza simile gli avvertimenti vanno dritti al cuore». « Hai ragione! », disse Pipino. « Se adesso ponessero innanzi me tutt'e sette le pietre, chiuderei gli occhi e metterei le mani tasca ». « Bene! », disse Gandalf. « È ciò che speravo». «Ma vorrei sapere... », riprese Pipino. « Pietà! », gridò Gandalf. « Se per curare la tua curiosità é necessario distribuire informazioni, passerò il resto dei miei giorni a risponderti. Che altro vuoi sapere?». «Il nome di tutte le stelle, di tutti gli esseri viventi, 1'intera storia della Terra di Mezzo, del Sopracielo e dei Mari Nemici!», rispose ridendo Pipino. «Beninteso! O forse tu pensavi a qualcosa di meno? Stasera, comunque, non ho fretta, e mi stavo semplicemente domandando che cosa fosse quell'ombra nera. (26)


Tutti dovremmo aver un palantir, bruciarci le mani prima di incorrere nella pazzia di Denethor ?

Pensare che oggi le cose siano diverse sarebbe un’ illusione fatale. L'oppositore del genere umano non è legato luoghi, tempi o condizioni di vita. Chi entra oggi in monastero o si dà alla vita religiosa o ecclesiastica, in questo nostro mondo demitizzato, spesso non considera questo fatto fondamentale: egli è eo ipso entrato nel "deserto", nel luogo dell'isolamento e della derelizione, di desolati percorsi di sete e di ingannevoli miraggi. Chi non volesse ammettere questa realtà e che immaginasse di essere solo un bravo "operaio nella vigna del “Signore”, correrebbe il rischio di misconoscere la vera natura delle difficoltà che inevitabilmente incontrerà. Sarà sorpreso di trovare nella sua "vigna" tanta "zizzania", "spine e cardi", invece di "uva", e non capirà che è stato il "nemico" a seminarli di nascosto. Questa lotta non è un semplice incidente, un imprevisto, ma è parte integrante della vita nel deserto! Paradossalmente questa mancanza di consapevolezza non si riscontra solo nei cristiani che vivono nel mondo, il cui sguardo spesso è offuscato dall'opacità dei beni materiali, ma anche in tanti monaci ecclesiastici, che pure dovrebbero più avvertiti.
Qualcuno forse ci obietterà: "Non parlateci più del `mondo' né del diavolo! Sono vecchie favole, e l'uomo del nostro tempo non sa che farsene!". Che sia diventato difficile parlare all’uomo moderno del male come di una potenza personale, è vero. Talmente vero che un biblista contemporaneo ha potuto avanzare la richiesta che la si finisca una volta per tutte con il "mito dei diavolo"! Il poeta avrebbe dunque visto, in questo caso, più chiaro del biblista? Nel suo Spleen de Paris Baudelaire, con grande sgomento del diavolo, fa dire a un predicatore, che era "più acuto dei suoi confratelli", questa frase diventata giustamente celebre per il suo cinismo e la sua chiaroveggenza: “Miei cari fratelli, non dimenticate mai, quando sentirete vantare il progresso dei lumi, che la più bella scaltrezza del diavolo è quella di persuadervi che non esiste!” (27)

Il Signore Oscuro esiste. Se la prova fu dura per Boromir, chi di noi è così “pulito” come Faramir?

«Ahimè, povero Boromir! Fu una dura prova! », disse. « Come , avete accresciuto la mia pena, voi due, strani viandanti di un remoto paese, portatori del pericolo degli Uomini! Questi, però, voi non li sapete ancora valutare con giustizia. Siamo gente sincera, noi Uomini di Gondor. Le rare volte che ci vantiamo, facciamo di tutto per dare una dimostrazione, o moriamo nel tentativo. Io non m'impadronirei di quell'oggetto anche se lo trovassi lungo la strada, dissi qualche tempo fa. Pur se fossi Uomo da desiderarlo, e benché allora non sapessi precisamente di che cosa stessi parlando, considererei tuttavia quelle parole una promessa vincolante. « Ma non sono quel genere d'Uomo. O forse sono abbastanza saggio per sapere che vi sono pericoli dai quali un Uomo deve fuggire… Dormite ambedue… in pace, se ne siete capaci. Non temete! Non desidero vederlo, né toccarlo, né sapere altro su di esso (qual che già so è più che sufficiente), e non voglio che il pericolo mi tenda in agguato, rivelandomi alla prova più debole di Frodo figlio di Drogo. (28)

Che cosa c’è dietro a questa curiosità malsana per le cose oscure? Ci sono i tamburi rullanti che portano Grond, quell’ariete dell’oltretomba per sfondare le porte:

Era contro il cancello che egli intendeva lanciare l’assalto più massiccio. Benché esso fosse estremamente robusto, forgiato in ferro e acciaio e difeso da tori e bastioni di roccia inespugnabile, tuttavia era la chiave, il punto più debole di quell’immensa e impenetrabile muraglia. I tamburi rullano più forte. Nuovi incendi avvamparono. Delle grosse macchie strisciarono attraverso il campo, e fra esse vi era un enorme ariete, grande come l’albero di una foresta, lungo circa cento piedi, sostenuto da possenti catene. Da molto tempo ormai le oscure fucine di Mondor erano intente a forgiarlo, e la sua mostruosa testa, fusa in acciaio nero, riproduceva le sembianze di un lupo vorace; esso recava in sé diabolici incantesimi. L’avevano chiamato Grond, in memoria dell’antico Martello dell’Oltretomba.
Allora il Capitano Nero si rizzò sulle staffe e urlò con voce spaventosa, pronunciando in qualche ignoto linguaggio parole di potere e di terrore tali da leccare cuori e rocce. Urlò tre volte. Tre volte rimbombò il grosso ariete. Ed improvvisamente all’ultimo colpo il Cancello di Gondor cedette. Come colpito da un lacerante maleficio, lo si vide saltare in aria: vi fu un lampo di luce accecante ed i battenti crollarono in terra frantumati in mille pezzi. (29)

Vogliamo confrontarci con questo. Io posso crederci o non credere nei dobermann, ma se apro una porta e ci sono dei dobermann inferociti, che io ci creda o che io non ci creda, è indifferente ai dobermann. Se io prendo un veleno, non credendo che sia veleno…tutti i funghi sono commestibili, però alcuni funghi si possono mangiare una volta sola, anche se non lo credevo… la realtà non dipende da quello che noi crediamo o non crediamo. (30)
Lewis ci rincuora:

Seppur caduto addietro l’uomo non è perduto ancora, né senza metro. Conosce la disgrazia ma è ancora tale e serba i brandelli del suo manto regale… (31)

Noi continuiamo ad avere la possibilità della saggezza, se vogliamo e se ci preoccupiamo di come va male il mondo, di come è astuto il nemico e di quanta cattiveria c’è. Questa è la saggezza di Denethor:

Nei suoi giorni di saggezza Denethor non immaginò di adoperarla, né di sfidare Sauron, conoscendo i limiti delle proprie forze. Ma la sua saggezza venne a mancare; e temo che quando crebbe il pericolo per il suo reame, egli guardò nella Pietra e fu ingannato; ciò accadde più di una volta, credo, dopo la partenza di Boromir. Denethor era troppo grande per venire assoggettato al volere dell'Oscuro Potere, ma vide soltanto le cose che questi gli permise di vedere. Ciò che apprese gli fu indubbiamente più volte utile; ma la visione dell'enorme potenza di Mordor che gli veniva ripetutamente mostrata alimentò nel suo cuore la disperazione, a tal punto da sconvolgergli la mente». (32)

Diceva tutte cose vere e vedeva tutte cose vere, ma gli è stata tolta la speranza e la disperazione è la cosa peggiore. Ricordate “Le lettere di Berlicche” di Lewis? E’ un buon libro per conoscere il realismo delle cose e conservare allo stesso tempo il senso dell’umorismo. O ricordate “Il grande divorzio” , sempre di Lewis ? Tutti desideriamo pienezza: diceva già Sant’Agostino:

Perché altro è vedere la terra della pace da una cima boscosa… e altro è seguire la strada che ad essa conduce.

Se uno soltanto pensa di poter arrivare a quella pienezza, a quella pace, ricercando “Qualcosa” ripeterà forse quello che feci io 25 anni fa, quando entrai in seminario dicendo che volevo dedicarmi alle cose eterne. Ci ho messo 25 anni per capire che le cose eterne non possono dare la felicità anche se uno le ottenesse, soltanto le persone eterne possono farlo. E’ Qualcuno e non Qualcosa la risposta!

Qualcuno si chiederà se il mio terrore fosse in qualche modo alleviato dal pensiero che ora andavo avvicinandomi alla fonte cui la mia gioia aveva sempre attinto le sue frecce. Nemmeno per idea. Nulla mi faceva pensare che Dio e la mia gioia fossero o sarebbero mai stati collegati. Se mai, era il contrario. Avevo sperato che il cuore della realtà fosse tale da poter essere simboleggiato come un luogo; invece, scopersi che si trattava di una persona. (36)

Si potrebbe formulare questa affermazione paradossale: che la consapevolezza di avere a che fare con manifestazioni di potenze malvagie personali, ci ricorda che anche noi siamo persone e che, nel modo di relazionarci con la vita, ci giochiamo la felicità e che c’è un Tu (Eru Luvatar), che ci ha fatto figli suoi per la nostra felicità. (37)

Altri mali potranno sopraggiungere, perché Sauron stesso non è che un servo o un emissario. Ma non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare. Ma il tempo che avranno non dipende da noi. (38)

Come anche Gandalf dice a Frodo, e le sue parole perfino vengono conservate nel film di Jackson, anche se il dialogo che era capitato a Bag-End viene messo nelle Miniere di Moria. Non possiamo scegliere il tempo nel quale viviamo, “perché io ho dovuto ereditare l’anello?”. Non possiamo scegliere il tempo nel quale viviamo, non dipende da noi; dipende da noi come utilizziamo il tempo che ci è stato dato. La saggezza di Gandalf vale per tutti e poi perché ci sono altre potenze all’opera nel mondo…

Per intere settimane, Sam fu troppo indaffarato per ripensare alle sue avventure, ma un giorno, improvvisamente, gli venne alla memoria il dono di Galadriel. Tirò fuori lo scrigno e lo mostrò agli altri Viaggiatori (tutti li chiamavano così, ora), chiedendo consiglio. «Mi chiedevo quando te ne saresti ricordato», disse Frodo. «Aprilo!» Dentro era pieno di una polvere grigia, soffice e sottile, in mezzo a cui c'era un seme, una specie di piccola noce ricoperta da un'oleosità argentea. «Che me ne faccio?», chiese Sam. «Getta in aria questa polvere in una giornata di vento, e vedrai che qualcosa succederà», disse Pipino. «Su quale terreno?», chiese Sam. «Scegli un posto come vivaio, e osserva come vengono su le piante», disse Merry. «Ma sono certo che la Dama non gradirebbe che io tenga tutta questa polvere per il mio giardino, ora che tanta gente ha sofferto gli stessi danni», disse Sam. «Usa il tuo intuito e le tue cognizioni, Sam», disse Frodo…
Sam si domandò cosa ne sarebbe venuto fuori. Lasciò passare l'inverno il più pazientemente possibile, cercando di trattenersi dal girare la Contea per vedere se accadeva qualcosa. La primavera superò ogni sua più ardita speranza. Gli alberi incominciarono a germogliare e a crescere; il tempo sembrava aver fretta, come se un anno contasse per venti. (39)

Era passata l’era degli Elfi, la magia non circondava più Lorien, ma c’era una benedizione all’opera nella Contea, “in quella polvere e in quel grano”…..
Anche quando Frodo si imbarca e parte:

…nell’aria una fresca fragranza, e udì dei canti giungere da oltre i flutti. Allora gli parve che, come quando sognava nella casa di Bombadil, la grigia cortina di pioggia si trasformasse in vetro argentato e venisse aperta, svelando candide rive e una terra verde al lume dell’alba. (40)

Se quella, in altro linguaggio, è la speranza, grosso modo credo che quasi tutti possono condividere, come diceva p. Guido Sommavilla:

Tutti dunque, o quasi, irreali per la terra, ma non impossibili per il mondo universo i personaggi dell'epos tolkieniano. Infatti, a dispetto dell'irreale fiabesco, il lettore ha una continua impressione di realismo e di realtà umanissima. Non solo perché l'arsenale da cui l'autore attinge ogni suo materiale costruttivo è quello della storia e della psicologia umana più autentica, ma soprattutto perché ogni lettore si sente interpretato nel mistero verissimo della propria umanità sulla terra dal tema fondamentale e dalle sue variazioni inesauribili. È il mistero della propria esistenza drammatica. (41)

Dal momento che nella nostra umanità ci sentiamo interpellati da questo mistero verissimo di questa umanità, della nostra umanità in questa terra e scopriamo che tutto è vero, che è vero il sogno di Frodo a casa di Tom, che è vera la visione tra i flutti e il canto che sente quando si avvicinano alle rive immortali. Tutto è vero, l’oscuro signore non ha l’ultima parola e tutte le onde del tempo non dobbiamo gestirle noi; una piccola luce sconfigge le tenebre più fitte, come diceva Madre Teresa di Calcutta, “invece di prendervela con le tenebre accendete una luce”, la fiammella più piccola penetra le tenebre più fitte.
Allora se capiamo che tutto è vero, ed è vera l’oscurità ed è vera la luce e sono vere le potenze all’opera e sono più potenti di quelle dell’oscuro signore, allora la vita vale la pena di essere vissuta: per male che vada a noi, potremmo salvare le cose per altri se non per noi stessi, come Frodo.

Verità dunque. Ma che bellezza: fantasia, psicologia, lingua, ironia tutte straordinarie. Tuttavia questa storia non sarebbe intensamente bella quanto è se le sue magnifiche forme espressive non ci ritrasmettessero l’eco di quella verità-mistero, dimenticata ma non spenta, che noi siamo nel profondo; in altri termini se questa storia non fosse epica nel senso più pieno della parola. Esala da ogni sua pagina l’arcano sapore mitico dei grandi motivi epici delle grandi narrative di ogni tempo: « Riconquiste » di tesori perduti, ma non soltanto d'oro e d'argento; « Andate e Ritorni » (There and Back Again è, in inglese, il sottotitolo) ma non a una casa qualunque; dilemmi del Bene e del Male e battaglie contro il Maligno, ma nel senso mistico del termine e non soltanto moralistico e socio-politico; giochi e conflitti fra Grazia divina e arbitrio umano, alleanze umano-divine, e via dicendo. E inoltre il singolo che si sente nel tutto, e viceversa. Più d'uno di questi motivi risuona nelle ultime battute che Gandalf e Bilbo si scambiano alla fine in casa di costui: «Allora le profezie delle vecchie canzoni si sono rivelate vere, più o meno!» disse Bilbo. «Ma certo!» disse Gandalf. « perché non dovrebbero rivelarsi vere? Certo non metterai in dubbio le profezie, se hai contribuito a farle avverare! Non crederai mica, spero, che ti sia andata bene in tutte le tue avventure e fughe per pura fortuna, così solo e soltanto per il tuo bene? Sei una bravissima persona, signor Baggins, e io ti sono molto affezionato; ma in fondo sei solo una piccola creatura in un mondo molto vasto! » «Grazie al cielo!» disse Bilbo ridendo, e gli porse la borsa di tabacco. (42)

E noi, grazie al cielo, non siamo più grandi di Bilbo, però la nostra piccola parte la possiamo fare, anche se non avessimo tabacco!


P. Guglielmo Spirito ofmconv
Rimini, 11 Marzo 2005

APPENDICE A

 

Tratta da: SPIDLIK, Tomas, Ignazio di Loyola e la spiritualità orientale, guida alla lettura degli Esercizi, Edizioni Studium, Roma, 2003, pp. 92-95.


Nel suo libro La colonna e il fondamento della verità, P. Florenskij propone questa esperienza vissuta: O mio starec! Non posso dirti con quale timore mi accingo a scrivere questa lettera, perché so bene quale sia la difficoltà di espressione; lo scheletro dei nostri rozzi concetti è troppo grossolano e ci vuol niente a rovinare l'integrità del tessuto quasi impalpabile delle esperienze vissute, quando la si tende su questa ossatura. Forse soltanto le tue mani lo sapranno raccogliere senza strapparlo. La questione della «morte seconda» è dolorosa; una volta l'ho esperimentata in sogno in maniera pienamente concreta, senza immagini e con esperienze puramente interiori. Mi circondava un buio pesto, tanto fitto da essere tangibile; certe forze mi trascinavano sull'orlo, e sentivo che era l'orlo dell'Essere divino oltre al quale c'è il nulla assoluto. Volevo gridare e non potevo; ancora un istante, e sarei precipitato nelle tenebre esteriori. La tenebra incominciava a trasfondersi in me; la mia coscienza era per metà scomparsa e sapevo che questo era l'annientamento assoluto, metafisico. Nella disperazione suprema gridai con una voce che non era più la mia: «Dal profondo io grido a Te, Signore! Mio Signore, dammi ascolto» (Sal 129, 1). In queste parole effusi tutta l'anima. Le mani di qualcuno mi afferrarono con potenza mentre affogavo e mi gettarono lontano dall'abisso; la spinta fu improvvisa, piena di autorità. Di colpo mi ritrovai nel solito ambiente, mi pare nella mia camera; dal non essere mistico alla vita quotidiana. Allora immediatamente mi sentii davanti alla faccia di Dio e mi svegliai intriso di sudore freddo.
Sono trascorsi quasi quattro anni, eppure tremo tutto alle parole «la morte seconda», la tenebra esteriore, la cacciata dal Regno. Tutto il mio essere freme ancora quando leggo: «Che non resti solo senza di Te, datore di vita, mio respiro, mia vita, mio gaudio, mia salvezza», cioè che non resti nell'inferno, fuori della vita, del respiro e del gaudio. Tuttora apprendo con nostalgia e commozione la parola del salmista: «Non rigettarmi via dal tuo cospetto, non ritogliermi il tuo spirito santo» (Sal 50, 13). Eppure il mio sogno, la mia commozione sono uno scherzo in confronto al bruciare da sveglio per trentatré anni nella geenna di fuoco, al morire della morte seconda per trentatré anni. Ora questo è accaduto realmente.
Nelle carte di Nikolaj Aleksandrovic Motovilov, "piccolo servitore della Madre di Dio e di Serafino", scoperte da S. Nilus, si trova la descrizione di un principio di ossessione demoniaca, straordinaria per chiarezza e concretezza. Ecco nella loro realtà vissuta le pene della geenna, per quanto le possa attingere 1a nostra coscienza attuale:
«In una stazione postale sulla strada di Kursk - così riferisce S. Nilus le parole di Motovilov - Motovilov si era fermato per passarvi la notte. Rimasto solo in camera, estrasse dalla valigia i suoi manoscritti e in cominciò a ordinarli alla luce fioca di un'unica candela che illuminava appena la grande camera. Tra i primi fogli gli capitò sottomano la descrizione della guarigione della nobile Eropkina, indemoniata, avvenuta sulla tomba del santo vescovo Mitrofane di Voronez. "Incominciai a riflettere", scrive Motovilov, "come possa accadere che una cristiana ortodossa, la quale si comunica ai purissimi e vivificanti misteri del Signore, improvvisamente sia invasata dal demonio e per più di trent'anni. Sciocchezze!, pensavo. Impossibile! Vorrei vedere se il demonio osa installarsi in me che mi comunico spesso". In quel medesimo istante una nube terribile, fredda, maleodorante, lo circondò e cominciò a penetrargli nella bocca attraverso i denti serrati con spasimo. Il povero Motovilov si dibatteva, cercava di difendersi dal gelo, dal puzzo, dalla nube che lo invadeva, ma tutto fu vano. Le sue mani erano totalmente paralizzate e incapaci di fare il segno della croce, il pensiero raggelato dal terrore non poteva ricordare il nome salvifico di Gesù. La cosa orribile e ributtante accadde, e per Motovilov incominciò un periodo di terribili sofferenze. In questo stato egli tornò a Voronez dall'Arcivescovo Antonio. Il suo manoscritto descrive così le sue pene: "Il Signore fece sì che su me stesso, non in sogno o in visione ma veramente, provassi tre tormenti della geenna:
a) il fuoco senza luce e che solo la grazia dello Spirito Santo può estinguere, durò tre giorni e mi sentivo ardere senza bruciare. Sedici o diciassette volte al giorno mi ripulivano dalla fuliggine della geenna e tutti lo potevano constatare. Questa pena cessò solo dopo la mia confessione e comunione, per le preghiere dell'arcivescovo Antonio e le suppliche che egli ordinò di fare in tutte le quarantasette chiese di Voronez e in tutti i monasteri per il servo di Dio malato, Nikolaj;
b) il feroce tartaro della geenna con il fuoco che non solo non bruciava ma neanche riscaldava, durò due giorni. Per ordine dell'arcivescovo io tenni una mezz'ora sulla fiamma della candela la mano che diventò tutta nera ma non si riscaldò neppure. Ho scritto una pagina intera su questa esperienza sicura, apponendovi l'impronta della mia mano annerita. Grazie alla comunione, nonostante queste sofferenze potei mangiare e bere e anche dormire un poco, ma il tormento era visibile a tutti;
c) il terzo momento della geenna durò solo un giorno e mezzo, ma fu enorme, terribile e doloroso, indescrivibile e inattingibile. Non so come rimasi vivo. Anch'esso scomparve dopo la confessione e la comunione che l'arcivescovo Antonio mi diede di sua mano. Fu la pena del verme insonne della geenna, visibile a me solo e all'arcivescovo, ma che non mi permise né di dormire né di mangiare né di bere, perché questo pessimo verme mi riempiva tutto, strisciava in tutte le mie viscere, rodeva inspiegabilmente tutto il mio intestino, mi usciva dalla bocca, dalle orecchie e dal naso per tornare nelle mie viscere. Dio mi diede potere su di esso e così potei afferrarlo e tirarlo. Sono costretto a descrivere tutto questo, perché il Signore non mi ha dato invano questa esperienza e nessuno pensi che io osi nominare il nome di Dio invano. Nel giorno del terribile giudizio Lui stesso, Dio, aiuto e protettore mio, renderà testimonianza che non ho mentito contro di Lui e contro ciò che la sua divina provvidenza ha compiuto in me". Dopo questa tentazione terribile e incomprensibile all'uomo comune, ben presto Motovilov ebbe la visione del suo protettore san Serafino, il quale lo consolò promettendogli la guarigione in occasione della ricognizione del corpo del santo vescovo Tichon Zadonskij e assicurandolo che nel frattempo il demonio installatosi in lui non l’avrebbe tanto crudelmente tormentato. La ricognizione avvenne solo trent’anni dopo e Motovilov con fede attese per tutto questo tempo la guarigione e l’ottenne».

APPENDICE B

Tratta da: AMORTH, Gabriele, Un esorcista racconta, Edizioni Dehoniane Roma, Roma, 1990, pp.119-129.

LA TESTIMONIANZA DI UN COLPITO

Questo capitolo non è mio, ma è una testimonianza scritta con rara chiarezza. Pure per l’esorcista più esperto, è sempre difficile immedesimarsi e capire ciò che provano gli ossessi. E anche quella che può apparire un’infestazione di media gravità, nasconde sofferenze che lo stesso paziente fa fatica a descrivere. E’ stato questo lo sforzo principale di G.G.M.: cerca di esprimere l’inesprimibile, confidando di essere capito soprattutto da chi è affetto da un male analogo.

Cominciò tutto dopo i 16 anni. Prima ero un ragazzo felice, spigliato e piuttosto allegro, anche se una certa oppressione mi perseguitava e dovunque mi si diceva: «Noi facciamo questo; e tu? ». «Noi andiamo lì e tu?». Non capivo il perché, ma allora non me ne facevo un problema. Abitavo in una cittadina marittima; il mare, l'alba e le campagne mi davano un aiuto notevole per tenermi lontano dalle malinconie. Dopo i 16 ami mi trasferii a Roma, lasciai la Chiesa e cominciai a frequentare tutto ciò che in una grande città attira un forestiero, cioè tutte quelle situazioni estremiste che in un paese non sono neanche conosciute. Ben presto conobbi drogati, barboni, ladri, ragazze facili e via dicendo. Avevo una certa fretta nell’imparare tutto questo «rumore» che mi distoglieva enormemente dalla pace che avevo prima. Cominciai a vivere questa nuova dimensione artificiosa, satura, nauseante. Avevo un padre molto oppressivo, controllava ogni mia mossa ed era sempre disgustato di me. La somma di questi disgusti e di tutte le umiliazioni che mi dava mi spinse come una molla in mezzo alla strada. Me ne andai di casa e conobbi bene fame, freddo, sonno e cattiveria. Frequentavo donne leggere e amici pesanti. Presto sorse in me una domanda senza risposta: «Perché vivo? Perché mi ritrovo per strada? Perché io sono così e gli altri invece hanno la forza per lavorare e sorridere?». A quel tempo frequentavo una ragazza che credeva che il male fosse più forte del bene; parlava di streghe, maghi e scriveva cose da capogiro. Io pensavo che era molto intelligente perché era fuori dalla portata di un essere umano scrivere tutte quelle congetture sul mondo e sulla vita. Lessi tutti i suoi quaderni e poi le imposi di bruciarli davanti a me perché parlavano solo di male e mi dava un po’ paura tenere quei fogli in giro per casa. Fui tanto odiato da quella ragazza senza capire il motivo; cercai di aiutarla ad uscire da quel cono nero, ma non ci riuscii, mi derideva e con me il bene che proponevo. Tornai a casa con i miei amici, mi misi con un'altra ragazza peggiore della prima e per qualche anno fui triste, sfortunato e perseguitato da ogni persona che conoscevo; una specie di buio mi circondava, il sorriso era fuggito da me e le lacrime erano sempre pronte a rigare il viso. Ero disperato e ancora mi domandai: «Perché vivo? Chi sono io? Che fa l’uomo sulla terra?». naturalmente, nel mio ambiente, tutto ciò non interessava a nessuno e dentro di me, in un momento di disperazione molto forte gridai con un filo di voce: «Dio mio sono finito! Eccomi davanti a te… aiuto». Pare che fui ascoltato; dopo qualche giorno la ragazza che avevo entrò in una chiesa, fece la comunione e si convertì in un tempo record. Io, per non essere da meno, feci lo stesso e capitai in una chiesa nella quale portavano in processione la Madonna di Lourdes; mi chiamarono per aiutare a portare la statua e benché mi vergognassi, lo fece e ne fui orgoglioso. Feci la comunione e rimasi stupito del confessore che fu buono e comprensivo. Uscii da lì dicendo: «Ce l’ho fatta; sono tornato al bene». E anche se non conoscevo che cosa era il bene, sentivo che era così.[…] Tornammo alla Chiesa in forma piena, cambiammo vita, amammo Dio più di noi stessi, tanto che lei si fece suora e io pensai al sacerdozio. Non contenevo più la gioia di avere un motivo per vivere e che la vita non finisse qui. Ma non era che l’inizio; c’era infatti «qualcuno» che non era contento di tutto questo. […] Comincia a risentire l’eco di quel buio che la mia anima viveva prima di scoprire Dio. Nel giro di qualche settimana, quella sensazione che io attribuivo all’oppressione di mio padre, alla condizione disagiata in cui, per vari motivi, ero vissuto e a un tormento che credevo comune senza capire che per gli altri non era così, questa sensazione, dicevo divenne realtà. Cominciai a soffrire come mai mi era successo; sudavo avevo la febbre e la forza mi aveva abbandonato, tanto che non riuscivo più a mangiare, ma venivo imboccato. Avevo la percezione di soffrire con qualcosa di diverso dal corpo, infatti esso era come estraneo a questi fatti. Provavo una disperazione fortissima e vedevo, non so con quali occhi, un buio che ottenebrava non la stanza dove stavo, non il letto sul quale ormai da mesi mi trovavo, ma il futuro, la possibilità di vita, la speranza del domani. Ero come ucciso da un coltello invisibile e sentivo che chi premeva questo coltello mi odiava e voleva di più della mia morte. E’ molto difficile spiegare a parole, ma era così come ho detto. Dopo vari mesi ero impazzito e non ragionavo più, volevano portarmi in manicomio; non capivo più quello che dicevo perché ormai vivevo in un'altra dimensione: quella in cui soffrivo. La realtà era come staccata da me. Era come se fossi presente nel tempo solo col corpo, ma l’anima si trovasse altrove, in un posto orribile, dove non penetrava luce e non esistono speranze. Rimasi molti mesi così, tra la vita e la morte e non sapevo più cosa pensare. Persi amici, parenti e la comprensione di familiari. Ero fuori dal mondo e non mi capivano più, né potevo pretenderlo, sapendo ciò che avevo dentro e che mai sarei riuscito a descrivere. Dimenticai quasi Dio e anche se mi rivolgevo con pianti e lamenti interminabili, lo sentivo lontano; di una lontananza che non si misura a chilometri, ma a negazioni; cioè qualcosa diceva no a Dio, al bene, alla vita, a me. Pensai di rivolgermi a un ospedale perché supponevo che la febbre che avevo da mesi dovesse per forza dipendere da una causa fisica e, tolta quella, sarei stato meglio; e poi qualcosa dovevo pur fare. A Roma, solo per febbre, nessun ospedale mi voleva ricoverare e dovetti andare lontano 300 chilometri, dove stetti per venti giorni, sottoposto ad esami e prelievi di tutti i generi. Uscii con un nulla di fatto e una cartella clinica che avrebbe fatto scoppiare d’invidia un’atleta: ero sano come un pesce, ma una postilla diceva che nessuno si spiegava la febbre e la faccia gonfia e cadaverica. Ero bianco come i fogli di un quaderno. Appena uscii dall’ospedale, dove tutti i miei mali s’erano un po’ attenuati, entrai in una crisi fortissima, vomitai più volte, soffrii tutto ciò che è possibile soffrire per un uomo e mi ritrovai in un punto sconosciuto della città; come ci ero arrivato non lo so; le gambe camminavano da sole, le braccia erano indipendenti dalla volontà e così il resto del corpo. Fu una sensazione: orribile; comandavo agli arti che non mi ubbidivano più; non auguro a nessuno di provarlo. Come se non bastasse ritornò il buio che, questa volta, si estese dall'anima anche al corpo. Vedevo tutto come di notte ed era giorno pieno. La sofferenza era arrivata alle stelle; cominciai a gridare, a contorcermi in terra come se avessi il fuoco dentro e invocai la Madonna gridando: «Mamma, mamma, abbi pietà... Madre ti supplico! Madre mia, grazia per me che muoio». I dolori non si attutirono e la sofferenza era talmente esasperata che persi anche il senso dell'orientamento e, strusciando sui muri, arrivai a una cabina telefonica; riuscii a comporre il numero urtando la testa sui vetri e sul telefono; mi rispose l'unica persona che conoscevo e che venne per riportarmi a Roma. Prima che arrivasse capii, come per un insegnamento esterno, che ero stato a vedere l'inferno; non a toccarlo o a viverci dentro, ma solo a vederlo da lontano. Quell'esperienza cambiò la mia vita […] Ancora però non pensavo a realtà ultraterrene, ma spiegavo tutto con motivi psicologici: disadattamento, padre oppressivo, traumi infantili, shock emotivi e varie altre cose che, come un bel disegno, spiegavano molto bene il perché dell'accaduto. Avevo studiato psicologia per cinque anni come autodidatta e così ero riuscito a formulare uno schema secondo il quale era ovvio che soffrissi. Il giorno della Madonna del Buon Consiglio, e per questo ci credetti avendola invocata, un frate mi consigliò di telefonare a un carismatico che agiva sotto la stretta tutela di un vescovo e aveva il dono della conoscenza. Costui mi disse: «Ti hanno fatto una fattura a morte per colpire la mente e il cuore e otto mesi fa hai mangiato un frutto maleficiato». Scoppiai a ridere non credendo a una sola parola; ma poi, riflettendo, sentivo dentro di me riaccendersi la speranza. Avevo dimenticato questa sensazione e pensai al frutto descritto e a otto mesi prima. «E vero, dissi, ho proprio mangiato quel frutto», e ricordai pure che non volevo mangiarlo per una istintiva repulsione verso la persona che me lo offriva. Tutto corrispondeva e allora ascoltai anche il consiglio sul rimedio suggeritomi, cioè le benedizioni. Cercai un esorcista e dopo le varie risate dei preti o dei vescovi e le umiliazioni che mi infersero, dalle quali scoprivo un aspetto della Chiesa deturpato dai suoi stessi pastori, approdai a don Amorth. Ricordo quel giorno molto bene; non sapevo ancora cosa fosse una benedizione particolare: pensavo a un segno di croce, come fa il prete dopo la messa. Mi sedetti, lui mi mise la stola intorno alle spalle e una mano in testa; iniziò a pregare in latino e non capivo niente. Dopo un po' una rugiada fresca, anzi gelata, mi scese dalla testa al resto del corpo. Per la prima volta, dopo quasi un anno, la febbre mi lasciava. Non dissi nulla; lui continuò e pian piano la speranza tornava a vivere in me, la luce del giorno tornava luce, il canto degli uccelli non somigliava più a quello dei corvi e i rumori esterni non erano più ossessivi, ma erano tornati semplici rumori; vivevo infatti con i tappi alle orecchie perché il minimo rumore mi faceva saltare. Don Amorth mi disse di ritornare e, appena uscito, ebbi una voglia grande di sorridere, di cantare, di gioire: «Che bello, dissi, è finita». Era vero, era tutto vero quello che avevo provato: era la rabbia di «qualcuno» che mi odiava e non una mia follia a farmi tutto quel male. «E vero, ripetevo da solo in auto, è tutto vero». Oggi sono passati tre anni e pian piano, una benedizione dietro l'altra, sono tornato normale e ho scoperto che la felicità viene da Dio e non dalle nostre conquiste o dai nostri affanni. I1 male, la cosiddetta sfortuna, la tristezza, l'angoscia, il saltellio delle gambe, l'irrigidirsi dei nervi, l'esaurimento nervoso, l'insonnia, il timore di schizofrenia o di epilessia (avevo avuto infatti alcune cadute) e tante altre malattie, di cui ero vittima, sparivano al suono di una semplice benedizione. Sono tre anni che io ho prove su prove che dimostrano, solo a me naturalmente, che il demonio esiste e agisce molto di più di quello che crediamo e che fa di tutto per non farsi scoprire fino a convincerci che siamo malati di questo o di quello, mentre è lui l'autore di ogni male e trema davanti a un prete con l'aspersorio in mano. Questa mia esperienza l'ho voluta descrivere per invitare quanti la leggeranno a prendere in esame questo aspetto della nostra vita che io, purtroppo, ho sperimentato in pieno. Sono, a conclusioni fatte, felice che Dio abbia permesso questa enorme prova per me, perché ora comincio a godere i frutti di tanta sofferenza. Ho l'animo più puro e vedo ciò che prima non vedevo. Soprattutto sono meno scettico e più attento alla realtà che mi circonda. Credevo che Dio mi avesse lasciato e invece era proprio allora che mi stava lavorando, per prepararmi a incontrarlo. Con questo scritto voglio anche incoraggiare quelli che sono malati come sono stato io a non perdersi d'animo perché, anche se sembra evidente, non bisogna credere neanche all'evidenza, cioè che Dio ci abbandona. Non è così e a cose fatte se ne ha la prova. Basta perseverare, anche se per anni. Devo inoltre fare una precisazione e cioè che le benedizioni hanno un effetto tanto più intenso quanto più Dio lo vuole e non dipendono dalla volontà dell'esorcista o del l'esorcizzato; e che questa intensità, secondo la mia esperienza, dipende molto di più dalla volontà di conversione del soggetto che dalle pratiche esorcistiche. La confessione e la comunione valgono come un grosso esorcismo. Nelle confessioni in special modo, se ben fatte, io ho provato l'immediata scomparsa dei tormenti sopracitati; e nelle comunioni, una dolcezza nuova che non pensavo potesse esistere. Anche anni fa, prima di tutte quelle sofferenze mi confessavo e facevo la comunione; ma non soffrendo, non potevo vedere, se così posso dire, da che cosa ero reso immune. Ora lo so e invito soprattutto i tiepidi a credere che Dio è realmente presente alla porta del confessionale e nell'ostia, che spesso prendiamo con grande distrazione. Inoltre invito gli scettici a credere, prima che «qualcuno» li aiuti per forza, come è accaduto a me. Per finire, mi rivolgo con un invito ai poveri, perché più di loro nessuno lo è, agli ossessi, agli odiati da Satana, che si serve dei loro stessi conoscenti per ucciderli o per opprimerli. Non perdete la fede, non rigettate la speranza, non sottomettete la volontà alle suggestioni violente e ai fantasmi che il maligno vi prospetta. Questo è il suo vero scopo e non quello di dare le sofferenze o di procurare del male. Lui non cerca il nostro dolore, ma qualcosa di più: e cioè la nostra anima sconfitta nel dire: «Basta, sono un vinto, sono un balocco in mano del male; Dio non è capace di liberarmi; Dio dimentica i suoi figli se permette tali sofferenze; Dio non mi ama, il male è superiore a lui». Questa è la vera vittoria del male alla quale dobbiamo rispondere, anche se non abbiamo più fede, perché il dolore ce la offusca. «Noi vogliamo volere la fede»; vogliamo volere; questa volontà i1 demonio non può toccarla, la volontà è nostra; non è né di Dio né del diavolo, ma solo nostra, perché Dio ce l'ha donata quando ci creò; quindi dobbiamo dire sempre di no a chi ce la vuole abbattere e dobbiamo credere (con S. Paolo) che «nel nome (lì Gesù Cristo ogni ginocchio si piega, in cielo, in terra e sotto terra». Questa è la nostra salvezza. Se non crediamo con fermezza, il male che ci è stato imposto, cori malefici o con fatture che siano, può durare per anni, senza miglioramenti. Inoltre, per coloro che si credono ormai impazziti e non vedono rimedio, io posso testimoniare che dopo molte benedizioni questo male passa come se non ci fosse mai stato; perciò non dobbiamo temerlo, ma lodare Dio per la croce che ci dà. Perché dopo la croce c'è sempre la risurrezione, come dopo la notte viene il giorno; tutto è creato così. Dio non mente e ci ha prediletti per accompagnare Gesù nel Gethsemani, a far compagnia al suo dolore per risorgere con lui. Offro a Maria Immacolata questa testimonianza perché la faccia fruttificare per il bene dei miei fratelli di dolore. Rispondo con l'amore, il perdono, il sorriso e la benedizione a coloro che sono stati strumenti del diavolo per darmi il martirio che ho patito. Prego che la mia sofferenza faccia loro intravedere la luce che anch'io ho ricevuto gratuitamente dal nostro Dio meraviglioso.

G. G. M.

BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA

BIBLIOGRAFIA Note
  1. O’ DONOHUE John, Anam Cara. A Book of celtic Wisdom, ed. Cliff Street Book, p. 144.
    People frequently need to belong to an external system because they are afraid to belong to their own lives. lf your soul is awakened, then you realize that this is the house of your real belonging. Your longing is safe there. Belonging is related to longing. lf you hyphenate belonging, it yields a lovely axiom for spiritual growth: BeYour-Longing.
  2. GIOVANNI PAOLO II, lettera enciclica Redemptoris missio, 7.XII.1990, n.38 in AAS 38 (1991), pp. 249-340.
  3. TESTAFERRI Francesco, L’epoca del <<ritorno religioso>>fra non credenza e indifferentismo, in Convivium Assisiense, anno VI Luglio-dicembre 2004, edizioni Porziuncola, Assisi, pp. 62-63.
  4. Ibidem, p. 69
  5. Ibidem, p. 77. Cfr. Il bricolage pratico di molti aspiranti <<religiosi post-moderni>> indica l’incedere pressante del pluralismo di principio con il quale, in questi ultimi anni, la Chiesa ha sentito la necessità di misurarsi severamente mediante la pubblicazione della dichiarazione Dominus Jesus.
  6. Ibidem, p. 76.
  7. LE GRANDE, Oliver, Le maschere di dio. Le maschere che lo sfigurano. Le maschere con cui l’abbiamo rivestito, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 2001, p. 7 (Ed. Or.: Les masques de dieu. Les masques qui le défigurent. Les masques dont nous l’avons affublé, editions Anne Sigier, Sillery (Quebec), 1997.
  8. Ibidem, p. 115.
  9. MATURA Thaddée, Dio “un’assenza ardente” Ricerca e desiderio di Dio dell’uomo di oggi, Pazzini Editore, Verucchio (RN), 2000, p. 49.
  10. MEN’, Aleksandr, (a cura di Giovanni Guaita), Gesù maestro di Nazareth la storia che sfida il tempo, Città Nuova editrice, Roma, 1996, p. 22. (Ed. Or. Syn Celoveceskij, N. F. Grigorenko, Moskva, 1992).
  11. Cfr. SPIRITO, Guglielmo, La nostalgia di Legolas in Tra Francesco e Tolkien, una lettura spirituale del Signore degli Anelli, Edizione il Cerchio iniziative editoriali, Rimini, 2003, pp. 85-126.
  12. Cfr. Genesi 3.
  13. Cfr. FERRO, Jorge N., Leyendo a Tolkien, Ed. Gladius, Vortice, 1996, p. 169. “Es aquel cuyo nombre no se pronuncia; porque los Valar os han engañado, proponiendo el nombre de Eru, un fantasma concebido en la locura de sus corazones con el fin de encadenar a los Hombres y obligarlos a que los sirvan. Porque ellos mismos son el oraculo de Eru, que sólo habla cuando ellos quieren. Pero el verdadero Señor prevalecera, y os liberara de este fantasma; y su nombre es Melkor, Señor de Todos, Dador de la Libertad, y él os hara mas fuertes todavia que ellos”.
  14. “For as we have seen illustrated in numerous ways in The Lord of the Rings, The Hobbit, and even in the essav "On Fairy-Stories," Tolkien did believe that Truth is absolute and objective, and not relative to time or space: that there is an underlving truth that we can (and ought to try to) see. In his book The Orphean Passages, Walter Wangerin Jr. expresses in slightly different words something of what I think Tolkien is saying in his essay: In order to comprehend the experience one is living in, he must, by imagination and by intellect, be lifted out of it. He must be given to see it whole; but since he can never wholly gaze upon his own life while he lives it, he gazes upon the life that, in symbol, comprehends his own. Art presents such lives, such symbols. Myth especially-persisting as a mother of truth through countless generations and for many disparate cultures, coming therefore with the approval not of a single people but of people-myth presents, myth is, such a symbol, shorn and unadorned, refined and true. And when the one who gazes upon that myth suddenly, in dreadful recognition, cries out, "There I am! That is me!" then the marvelous translation has occurred: he is lifted out of himself to see himself wholly. Wangerin's "mother of truth" is Tolkien's "underlving reality or truth," which myth (and fairy tale and fantasy) is the ideal vehicle for revealing. It is not just some distant inapplicable truth that we see, but a truth that speaks to our own situation. As Tolkien also writes, in describing the recovery that fairy stories can bring us, "We should meet the centaur and the dragon, and then perhaps suddenly behold, like the ancient shepherds, sheep, and dogs, and horses-and Epicwolves. This recovery fairy-stories help us to make" (FS, p. 146). The glimpses of the fantastic in the realm of Faerie can help us see in a new light that which is common and part of our primany world. In fact, we even see ourselves more clearly-we see the truth about ourselves in dreandful recognition- in a way we might not otherwise see. My goal in writing this book has been to suggest some of the "underlving reality or truth" into which Tolkien gives us a glimpse. One need not, by any means, agree with Tolkien's understanding of truth in order to enjoy and appreciate his work. That is, one needn't believe that his idea of truth is The Truth, or even that there is such a thing as truth. Yet whether or not one agrees with Tolkien's views of truth and reality, it is tremendously helpful, and perhaps indispensable, to at least understand what those views are if one is to understand what Tolkien was seeking to accomplish in his work. Then again, it just may be-and this is my own view here-that part of the reason for the phenomenal success of The Hobbit and The Lord of the Rings is that the books really do have the ring of truth through all of their important particulars.” DICKERSON, Matther, Fallowing Gandalf Epic battles and Moral victory in The Lord of the Rings, Brazos Press, Michigan, 2003, pp. 200-2001.
  15. TOLKIEN, John Ronald Reuel, Il Signore degli Anelli, Rusconi, Milano 1977, pp. 258-259( Ed. Or.: The Lord of the Rings, George Allen & Unwin Ltd, London, 1966).
  16. Ibidem, p. 264-265.
  17. Ibidem, p. 274-275. Cfr. ARTHUR, Sarah, Walking with Frodo, Tyndale House Publishers, Wheaton Illinois, 2003, p. 7: “So Here’s the point. There is such a being, though he may not have a visible form like what Tolkien or the LOTR movie gurus created. (In fact, C. S. Lewis, author of The Screwtape Letters, pictured him dressed in a business suit.) And the analogy is far from perfect. But he's real. At the heart of the spiritual opposition to the Creator God of the universe is a character who goes by many names.”
  18. La colonna e il fondamento della verità citato in SPIDLIK, Tomas, Ignazio di Loyola e la spiritualità orientale, guida alla lettura degli Esercizi, Edizioni Studium, Roma, 2003, pp. 92-95. Vedi Appendice A.
  19. AMORTH, Gabriele, Un esorcista racconta, Edizioni Dehoniane Roma, Roma,1990, pp.119-129.Vedi Appendice B
  20. Le GENDRE, Oliver , o.c. pp. 118-119.
  21. MATURA, Thaddèe, o. c. p. 75.
  22. Ibidem, p. 76.
  23. MEN’, Aleksandr, o. c. pp. 44-45.
  24. TOLKIEN, John Ronald Reuel, o.c. p. 448
  25. Ibidem, p. 725.
  26. Ibidem, p. 726.
  27. BUNGE, Gabriel, Akedia il male oscuro, Edizioni Qiqajon comunità di Bose, Magnano (BI), 1999, pp. 21-22. (ed. or. Akedia. Die geistliche Lehre des Evagrios Pontikos vom Uberdrub, Verlag “Der Christliche Osten”, Wurzburg, 1995).
  28. TOKIEN, John Ronald Reuel, o. c. pp. 822-823.
  29. Ibidem, pp. 994-995.
  30. BUNGE, Gabriel, o. c. p. 28-29. “Nel battezzato che ha rinunciato a Satana davanti a dei testimoni e che nell'immersione battesimale è morto e risuscitato con Cristo, il maligno, in linea di principio, non dovrebbe più trovare spazio. Se, ciò nonostante, abbiamo così spesso l'impressione di essere da lui non solo molestati, ma addirittura dominati, ciò non dipende dal fatto che il demonio dimora nei nostri cuori anche dopo il battesimo, come ritenevano i messaliani: la grazia del battesimo lo ha completamente scacciato, e luce e tenebra non abitano più insieme. Tuttavia egli ha ancora, per così dire, degli alleati naturali nel nostro patrimonio ereditario, nel nostro ambiente, nelle nostre abitudini, nella debolezza della nostra volontà, e si serve di essi. E un errore credere, sostiene Evagrio, che i demoni conoscano il nostro cuore. Solo Dio, che lo ha creato, "conosce il cuore". Certo, gli avversari hanno la possibilità di portare al nostro cuore, per mezzo dei loro alleati, le loro seduzioni malvagie; tuttavia davanti ad esse noi rimaniamo liberi di accettarle o di respingerle.” Viene poi citato Evagrio: “A quel ‘dragone sfuggente’ (Is 27,1) che vi incalzava non dovete neppure pensare: non prendetelo per qualcosa e non temetelo. Non è altro che uno schiavo fuggitivo, che ha vissuto male e si è sottratto al suo padrone. Non dategli spazio fino alla morte! Nostro Signore vi ha dato il potere di calpestare serpenti e scorpioni (Lc 10, 19), e voi tremate all’udire la voce dei demoni, perché sibilano?… Il drago sa solo minacciare.”
  31. In DURIEZ, Colin, Tolkien e il Signore degli Anelli guida alla terra di mezzo, Piero Gribaudi Editore srl, 2002, p.180.
  32. TOLKIEN, John Ronald Reuel, o.c. pp. 1028-1029.
  33. LEWIS, Clive Staples, The Screwtape letters, Anniversary Edition,
  34. LEWIS, Clive Staples, The Great Divorce, Zondervan Publishing House, Harper San Francisco
  35. Sant’Agostino, Confessioni, VII; XXI.
  36. LEWIS, Clive Staples, Sorpreso dalla gioia, Editori Associati S.p.A TEADUE., Milano, 1994, p. 167 (ed. or. Surprised by Joy. The shape of my early life, Pte Ltd, Dickerso 1955).
  37. Bunge Gabriel, o.c. p. 26-27: “ la consapevolezza di avere a che fare con manifestazioni di potenze malvagie personali, quando si tratta dei mali del mondo e della propria anima, sta in un rapporto diretto con la coscienza del proprio essere-persona. In gioco c’è, dunque, l’essere “a immagine di Dio” da parte dell’uomo, il suo fondamentale riferimento a Dio, il solo che nel suo essere trinitario è persona in modo assoluto e perciò il solo che può rendere possibile l'essere personale creato. Gli effetti di questo processo generalizzato di spersonalizzazione sono oggi sotto gli occhi di tutti: là dove la coscienza dell'essere-persona di Dio, di se stessi e anche delle "potenze malvagie" scompare, ha libero corso una paura diffusa e inafferrabile di essere esposti "al male" in senso anonimo. Questo "male" si manifesta allora nella storia (politica, strutture sociali, eccetera!, nella propria vita (istinti, ereditarietà, ambiente, eccetera), persino nel cosmo (fato, influsso degli astri, eccetera) nei più svariati modi, senza che l'uomo possa sfuggirgli. Anzi, l'uomo si trova a essere di nuovo in balìa di quegli ‘elementi del cosmo’ dai quali l'azione redentrice di Cristo lo aveva liberato (Gal 4). Non intendiamo qui esprimere giudizi sbrigativi sui motivi che, non da oggi soltanto, ma oggi più che mai, hanno portato a questa perdita del giusto equilibrio. Tuttavia se si considera lo strano entusiasmo con cui attualmente non pochi naturalisti si rivolgono, alla ricerca di una nuova "unità", alle religioni a-personali dell'Asia e addirittura a certe forme di un mai scomparso gnosticismo, c'è da chiedersi se questa spersonalizzazione non sia l'ultimo frutto - certo non voluto, ma nemmeno inevitabile - di quella "gnosi" naturalistica che a un dato momento della storia umana si è staccata dalla teologia. Con questa separazione, che voleva essere solo una soluzione pratico-tattica, è andato perso quel riferimento u un vis-à-vis assoluto che solo rende possibile il nostro stesso io. Si è smarrita così anche la percezione di una unità, che non è la solitudine di una fusione universale, bensì l'essere-uno (Einssein), senza confusione, dell’io nel faccia a faccia con il suo Tu.”
  38. TOLKIEN, John ronald Reuel, o.c. p. 1054
  39. Ibidem, p. 1217.
  40. Ibidem, p.1226
  41. SOMMAVILLA, Guido, Peripezie dell’epica contemporanea dialettica e mistero, Jaca Book, Milano, 1980, p. 436.
  42. Ibidem, pp. 436-437.