È fin troppo ovvio osservare che in un Paese
come l'Italia una discussione sui temi bioetici (dalla fecondazione
assistita all'eutanasia, fino in un certo senso ai Pacs), per non
diventare un monologo, deve dare voce adeguata alla posizione dei
cattolici. Questa esigenza si scontra però con un ostacolo difficile
da superare: vale a dire con la fortissima disparità che nel mondo
italiano della cultura e della comunicazione — cioè proprio in quel
mondo deputato a organizzare e animare la discussione pubblica —
esiste, si può dire da sempre, tra la presenza dei cattolici e quella
dei laici (uso per comodità questi due termini che richiederebbero,
lo so, una lunga serie di suddivisioni e di specificazioni). Se
ai più le cose non appaiono stare a questo modo — anzi in modo opposto
— è perché alla scarsa rappresentanza dei cattolici nella sfera
comunicativo- culturale fa da contrappeso, viceversa, una loro ormai
tradizionale fortissima presenza nella sfera politica, con un ruolo
(si pensi alla senatrice Binetti) che oggi è addirittura divenuto
quello di autentico ago della bilancia tra maggioranza e minoranza.
Ma questa iperinfluenza politica (con relativa sovraesposizione)
non cancella il dato del carattere assolutamente minoritario dei
cattolici nella sfera della comunicazione pubblica e dei circuiti
intellettuali. I più diffusi quotidiani del Paese, le case editrici
più importanti, gli spazi televisivi più ampi, vedono perlopiù una
larghissima prevalenza di addetti ai lavori, di collaboratori, di
autori, di uomini e donne di spettacolo e di intrattenimento, che
sono ideologicamente e culturalmente lontani dalle posizioni cristiane
e cattoliche in specie.
O meglio: personalmente, almeno in certi casi,
magari possono anche non esserlo, ma — al contrario dei loro colleghi
laici, i quali sono pronti a fare del proprio orizzonte ideale un
motivo d'impegno e una bandiera — essi viceversa non sono per nulla
disposti a far comparire nel proprio lavoro le loro personali convinzioni.
Il risultato è il tono massicciamente squilibrato con cui il mondo
della cultura e della comunicazione rappresenta la realtà del Paese
in tutte le sedi possibili, dal contenuto di un commento al titolo
di una «breve», alla battuta di un reality. Certo, in alcuni luoghi
deputati ad hoc — per esempio negli editoriali, nelle dichiarazioni
dei tg o nei dibattiti televisivi — la posizione cattolica o religiosa
in genere è quasi sempre rappresentata più o meno nella stessa misura
di quella laica (va tuttavia notata l'assenza costante, mi sembra,
del punto di vista ebraico o protestante), ma è nell'insieme, nella
miriade di righe con cui sono confezionate le notizie, nel modo
di presentarle, nel succo che ne traggono i più disparati commenti
nelle più disparate sedi, dalle rubriche alla posta dei lettori,
è nel tessuto complessivo del discorso comunicativo e culturale,
che invece per la posizione cattolica e in genere religiosa c'è
uno scarsissimo posto. Proprio nell'ambito decisivo, insomma, la
par condicio diviene così un miraggio. Sebbene sia noto che su questi
temi l'opinione pubblica è più o meno divisa a metà, di fatto, invece,
nel circuito culturale e comunicativo i valori laici tendono a presentarsi
come la norma assoluta, lo standard ideologico accettato e introiettato,
mentre la prospettiva e i valori religiosi rischiano di essere virtualmente
espulsi dal senso comune, di venire di fatto derubricati al rango
di «opinione»: ancora legittima, certo, ma già in partenza con le
stimmate della minoritarietà; quasi al limite dell'eccentrico.
La sanzione definitiva di questo stato di
cose si ha quando (sempre più spesso) a rappresentare il punto
di vista cattolico i media chiamano un esponente della gerarchia
o comunque del clero. Quale migliore riprova del carattere intimamente
minoritario di quel punto di vista del fatto che esso si presenta
come ormai ridotto a esclusivo appannaggio di un'ufficialità ideologico-burocratica
(per giunta esclusivamente maschile!)? Cioè come qualcosa ormai
fuori dalla vita vera, dalla normalità sociale vera? In tal modo,
tra l'altro, la Chiesa in quanto tale si trova sottoposta suo malgrado
a una fortissima visibilità destinata a suscitare inevitabili tensioni
politiche e ad avallare implicitamente l'idea che una discussione
come quella sui temi bioetici, invece di riguardare due punti di
vista, due mondi morali, entrambi ben presenti nel Paese, non sia
altro, in realtà, che la lotta del Paese intero da un lato contro
le ingerenze della Conferenza episcopale e del Vaticano dall'altro.
Sarebbe sbagliato, tuttavia, pensare che della condizione appena
descritta la responsabilità ricada esclusivamente sull'industria
culturale e sul sistema della comunicazione, magari governate da
qualche oscuro disegno antireligioso-laicista. Non è affatto così,
non c'è alcun complotto. Una parte considerevole di responsabilità
ricade piuttosto, semmai, sulla stessa cultura cattolica (se mi
si passa la genericità del termine), sugli stessi uomini e donne
di orientamento religioso che operano nella vita intellettuale,
giornalistica e massmediatica del Paese. Innanzi tutto per il fatto
già ricordato che perlopiù essi mostrano un'estrema riluttanza a
far trasparire in pubblico, nel proprio lavoro, le loro personali
convinzioni. Sicché, mentre è comunissimo che un attore, uno scienziato
o un letterato di orientamento laico manifestino il loro punto di
vista a ogni pie' sospinto e su ogni argomento appena significativo,
non esitando magari a polemizzare direttamente e aspramente con
la gerarchia cattolica, è viceversa rarissimo che sul versante opposto
accada qualcosa di analogo.
Capire perché le cose stiano così ci porterebbe
troppo lontano, ma è certo che in questo modo, anche in questo
modo, si realizza, non già l'espulsione della religione dalla sfera
(istituzionale) pubblica, bensì qualcosa del tutto diverso e dagli
effetti ben più gravi e illiberali: vale a dire l'espulsione di
fatto della religione, dei suoi motivi e delle sue preoccupazioni,
dalla sfera argomentativa e culturale della nostra società. Ciò
che ancor più contribuisce dall'interno a indebolire la voce cattolica
nel dibattito pubblico italiano è poi la sua fortissima politicizzazione.
Politicizzazione che si presenta sotto due forme: nei confronti
della lotta politica vera e propria che accende il Paese, e nei
confronti dello scontro ben più complesso, ma alla fine anch'esso
trasferibile in termini politici, che caratterizza non da oggi le
fila della stessa Chiesa. È una politicizzazione, sia chiaro, che
riguarda il mondo culturale del laicato cattolico italiano nella
sua interezza ma, siccome anche in esso vi è una prevalenza della
parte orientata a sinistra, è il comportamento di questa sua sezione
che finisce per avere più influenza, per dare il tono alla situazione
generale. Ora, l'impressione che abitualmente dà questo mondo cattolico
laico che si vuole «progressista» è che ogniqualvolta si crea un
contrasto tra il suo schieramento politico di riferimento e il proprio
orientamento religioso — specialmente se questo dà luogo a una presa
di posizione della gerarchia — l'orientamento religioso fatichi
moltissimo a esprimersi, e la via scelta divenga perlopiù quella
di un imbarazzato silenzio. Ovvero, come anche spesso accade, di
una contrapposizione polemica alla gerarchia stessa: contrapposizione
che nel dibattito pubblico è immediatamente interpretata e/o presentata
come una sostanziale adesione al punto di vista laico. Ciò che invece
indebolisce la voce dell'altro versante del mondo intellettuale
cattolico — quello che si oppone al «progressismo» — è l'alto grado
di esasperato personalismo che sembra caratterizzarlo. Il ridotto
spazio sociale che esso ha a disposizione sui giornali, nel mercato
editoriale, nell'ambito universitario come in quello televisivo,
accende qui contese e gelosie aspre, ripicche e idiosincrasie, che
accentuano ancor più la debolezza complessiva di quella voce, rendendo
quanto mai raro, anche tra coloro che condividono una stessa visione
delle cose, quel gioco di squadra che invece sembra riuscire ottimamente
alla parte laica. La quale finisce in questo modo per riportare
una vittoria troppo facile che, come si è già visto in occasione
del referendum sulla legge 40, rischia poi di essere smentita clamorosamente
dall' opinione del Paese.