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La Chiesa Cattolica, il Diritto e la pace in Terra Santa
di David Maria A. Jaeger Professore di diritto canonico del Pontificio Ateneo Antonianum

A dieci anni dalla Conferenza regionale di pace per il Medio Oriente, riunitasi a Madrid, la pace in Terra Santa potrebbe sembrare più lontana che mai, e così pure il rispetto del Diritto e dei diritti. Eppure a nessuno è lecito - ma non è neanche possibile - lasciarsi cadere nel lusso della disperazione. L’edificio giuridico, multipiano, multilivello e multidimensionale, destinato a costruire, «cimentare», sorreggere la pace, sia pure incrementalmente e molto, troppo lentamente, è, in fondo, indistruttibile. Anche qualora gli avvenimenti sembrino uscirne fuori, le esigenze del diritto - e precisamente, in questo caso, del diritto convenzionale - rimangono implacabili ed inesorabilmente detinate ad essere adempiute, se non subito, allora più tardi.

Le diplomazie, e quelle che si solevano chiamare, «le cancellerie» - ma anche gli operatori dei «dialoghi» di diverso genere si agitano in continuazione: visite, viaggi, colloqui, iniziative, dichiaraizoni, si susseguono a ritmo accelerato, su tutti i fronti, ma da tutta questa attività efimera quello che rimane è in fondo il «prodotto» giuridico, l’assunzione e talvolta l’imposizione di obblighi e diritti ben definiti.

Ed è il Diritto anche la via maestra della ricerca della pace in Terra Santa. Dalla Risoluzione 181 (II) adottata dall’Assemblea Generale dell’Onu il 29 novembre 1947 (54 anni orsono ieri), attraverso le successive Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza - notevolmente la 242 e la 338 - e fino alla Dichiarazione dei Principi tra Israele e l’Organizzazione di liberazione della Palestina del 13 settembre 1993 e gli accordi bilaterali tra le stesse Parti che ne sono seguiti.

L’intenso interessamento internazionale per le condizioni di una regione geografica, la Terra Santa, così circoscritta, dall’entità così esigua, non sarebbe certo spiegabile senza il riferimento a quello che il Preambolo all’Accordo fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato di Israele (30 dic. 1993) chiama, the singular character and universal significance of the Holy Land.

Nell’Art. 24 del «Trattato Lateranense» (11 febbraio 1929), la Santa Sede volle dichiarare il Suo proposito di rimanere «estranea alle competizioni temporali fra gli altri Stati ed ai Congressi internazionali indetti per tale oggetto». Ciononostante, in ragione della Sua «potestà morale e spirituale», altresì affermata nello stesso Articolo, la Santa Sede è rimasta e rimane il Soggetto Sovrano internazionale, riconosciuto universalmente come il più credibile «operatore di pace» sulla scena internazionale.

Oltre però ai frequenti appelli alla pace, alla giustizia, alla misericordia, che costituiscono l’esercizio cotidiano - effettivamente ininterrotto - della «potestà morale e spirituale» della Santa Sede in favore della pace, in Terra Santa ed ubique terrarum, la Santa Sede, proprio in ragione della «sovranità che le compete anche nel campo internazionale», è pure partecipe alla costruzione concreta ed efficace dell’»edificio giuridico» della pace - non soltanto mediante l’adesione agli strumenti giuridici internazionali che lo consentono per loro natura e finalità, ma anche, specialmente in Terra Santa, mediante trattati bilaterali che riguardano la salvaguardia dei diritti e dei legittimi interessi della Chiesa Cattolica, e che perciò promuovono, nel caso, la giustizia e la libertà anche all’interno delle società interessate.

Se la pace è frutto della giustizia, e la libertà ne è alla volta condizione di possibilità, frutto, e garanzia, l’opera di giustizia e di libertà compiuta dalla Santa Sede mediante gli Accordi conclusi con ambo Israele e Palestina costituisce anch’essa un’apporto singolarmente prezioso - anche se tuttora non quantificabile - alla promozione della pace in Terra Santa.

L’Accordo fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato di Israele (30 dicembre 1993),[1] e l’Accordo di base tra la Stessa e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (15 febbraio 2000),[2] non solo mettono fine a circa tredici secoli di endemica insicurezza giuridica per la Chiesa nella sua patria storica, ma mettono a verbale rinnovati espliciti inderogabili impegni dell’altra Parte di conformare il proprio ordinamento a norme universali a tutela della libertà e della dignità umana.

Singolarmente evidente è la differenza profonda tra l’indirizzo di base di questi trattati internazionali di tipo «concordatario» e i concordati firmati in altri tempi con altre Parti. Non più si cerca in essi qualche vantaggio particolare, qualche garanzia istituzionale, per le strutture ecclesiastiche cattoliche in un contesto che potrebbe essere segnato, nella sua globalità, anche da una generale mancanza di libertà e di giustizia. Invece vi si trova, in effetti, il riconoscimento che la Chiesa stessa non potrà mai dirsi libera per rapporto ad una società non rispettosa della libertà e dei diritti di tutti. Così infatti il primo Articolo - e questa collocazione è lungi dall’essere casuale, è invece espressiva di valore - di ciascuno dei due Accordi, contiene l’obbligo assunto dall’altra Parte - rispettivamente, uno Stato compiuto ed uno Stato embrionico - di «osservare il diritto umano alla libertà di religione e di coscienza, nei termini in cui è definito nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo» e negli strumenti di applicazione della medesima. Per Israele si tratta di rendere oggetto di un nuovo impegno formale, bilaterale, erga Sanctam Sedem, gli obblighi sostanzialmente già assunti in precedenza nell’ambito di convenzioni multilaterali (o anche di dichiarazioni unilaterali). Per la Palestina, si tratterebbe anche di un impegno originale che debba condizionare la costruzione del proprio ordinamento ancora essenzialmente in fieri.

Nessuno si illude pensando che questo Articolo da solo possa produrre i suoi effetti quasi magicamente. Ma, ricordando la sorte del celebre Atto finale della Conferenza di Helsinki, nessuno sarebbe giustificato nel sottovalutare l’eventuale effetto di impegni del genere una volta solennemente assunti.

Nè si debba sottovalutare la rivoluzione del pensiero «costituzionale» che detto Articolo - e ciascuno degli Accordi preso nel suo insieme - rappresenterebbe per le Nazioni interessate, eredi di un ordinamento plurisecolare che identificava numericamente lo Stato, ossia la Comunità politica, con la Comunità religiosa maggioritaria, racchiudendo gli aderenti ad altre religioni in enclaves socio-giuridiche di impossibile accesso a chi quelle religioni volesse abbracciare, senza che avesse subito la sfortuna civile di essere nato a genitori che ad esse già appartenessero.[3]

In questo modo la Chiesa Cattolica, tramite la Sua Autorità Sovrana, avrebbe dato un apporto positivo, modesto certo, ma sempre reale, alla lotta ininterrotta in Israele tra i sostenitori dello Stato laico proclamato dalla Dichiaraizone dell’Indipendenza e i protagonisti delle forti correnti teocraticizzanti. Una simile lotta è sempre in corso negli ambienti palestinesi tra chi vuol mantenere fede con l’ideale originale della laicità dello Stato, presente nei documenti fondamentali del moderno movimento nazionale palestinese, e le potenti correnti islamicizzanti, e ciò proprio in vista della futura costituzione del nuovo Stato nazionale.

In questa prospettiva, l’Accordo di base con la Paletina è ancor ben più dettagliato rispetto all’Accordo fondamentale con Israele. Esso infatti, oltre alla granzia della libertà di religione e di coscienza contenuta nell’Art. 1, contiene anche questi testi significativi: Il Preambolo riconosce che i «palestinesi, indipendentemente dalla loro affiliazione religiosa, sono membri uguali della società palestinese». L’Articolo 3 traduce questo riconoscimento in norma pattizia, nell’assicurare che l’ordinamento palestinese «assicurerà e proteggerà... l’eguaglianza dei diritti umani e civili di tutti i suoi cittadini, compresi specificamente, inter alia, il loro diritto ad essere liberi - sia individualmente che collettivamente - da discriminazione in ragione di affiliazione, credenza o pratica religiosa».

Ora la caratteristica originale degli Accordi tra la Santa Sede e, rispettivamente, Israele e Palestina, non è nè casuale, nè incidentale o co-incidentale. Essa sarebbe dovuta invece ad una precisa «visione» per il futuro della Chiesa nel Medio Oriente, e per il futuro delle stesse società medio-orientali, pubblicamente esposta dal Sovrano Pontefice alla vigilia della firma dell’Accordo fondamentale con Israele, e precisamente l’11 dicembre 1993.[4]

In quel discorso, passato quasi inavvertito all’inizio, ma ora reso ben noto - e giustamente ritenuto «programmatico» - a motivo di quanto ne è effettivamente seguito, Papa Giovanni Paolo II definiva oramai insufficienti i regimi giuridici tradizionali nella regione in relazione al trattamento riservato alla Chiesa e ai cristiani, e rivendicava un loro riordinamento alla luce dell’attuale «coscienza comune dell’umanità» e delle conseguenti «regole della Comunità internazionale» riguardo all’inalienabile diritto alla libertà di religione e di coscienza, compresa l’assoluta eguaglianza in materia sociale e civile di tutti , indipendentemente dalle loro scelte in materia di credenza religiosa o di convinzione. Egli ribadisce esplicitamente «la fondamentale distinzione tra l’ordine temporale e l’ordine spirituale», dalla quale «è scaturito il riconoscimento della libertà di religione,» che «è il diritto che sta alla radice di ogni altro diritto e di ogni altra libertà, poichè si fonda nella dignità dell’essere umano». Agli Stati che non corrispondessero ancora a queste esigenze della «coscienza comune dell’umanità», andrebbe indirizzato un «richiamo perchè modifichino eventuali ordinamenti interni in senso contrario».

Nel firmare successivamente gli Accordi - volutamente denominati, rispettivamente, «fondamentale» e «di base» - con Israele e con la Palestina, la Santa Sede avrebbe dato a tale «richiamo» un’opportuna veste propriamente giuridica, inducendoli a rispondere al Suo «richiamo» con un preciso impegno.

Gli Accordi proseguono, in parallelo, ad una serie di norme pattizie che, o specificano alcuni elementi precipui della libertà religiosa - con riferimento alla Chiesa Cattolica - o rispecchiano i diritti della Santa Sede come Autorità Sovrana, o della Chiesa Cattolica come società sovrana, o prevedono una serie di futuri accordi tra le Parti per colmare eventuali lacune negli accordi inaugurali o per rendere gli impegni assunti in essi più concreti e specifici.

Nel quadro del discorso attuale, si potrebbe utilmente rilevare ancora l’Articolo 4 di entrambi gli Accordi che impegna le Parti a mantenere ed osservare il regime giuridico di «Statu quo» nei Luoghi Santi cristiani da esso retti. Anche qui si può e si deve riconoscere un apporto specifico, e specificamente giuridico, della Santa Sede, della Chiesa Cattolica, alla pace. Come è noto, i Luoghi Santi della Redenzioni hanno dato occasione, più di una volta, a conflitti internazionali, coinvolgendo sia le Nazioni allora dette cristiane, che il Potere tempoale locale. E ciò, nel caso, a motivo delle rivendicazioni contrastanti delle Confessioni cristiane. Il «cessate il fuoco» imposto dalla Sublime Porta con il decreto del Soldano del 1852 e riconfermato in seguito dai consessi internazionali, notevolmente il Congresso di Berlino del 1878, non aveva mai convinto la Chiesa Cattolica. Essa, pur dovendolo osservare nella pratica, ne richiamava ripetutamente l’ingiustizia perchè, nella sostanza, esso consolidava le acquisizioni fatte dai monaci greci-ortodossi con l’irruzione violenta nei Santuari nel 1757, violando i diritti precedentemente acquisiti alla Chiesa Cattolica. Ora, senza - ovviamente - recedere dal proprio giudizio sugli avvenimenti storici, o, ancor meno, dalla propria convinzione di fede circa l’identità della Chiesa (e la questione dei Luoghi Santi è semrpe in fondo stata ecclesiologica), pro solo bono pacis, per dare testimonianza ai non-cristiani circa la natura pacifica della Chiesa, e perchè i disaccordi tra cristiani non diano mai più occasione a conflitti esternalizzati (o a meschine politiche di divide et impera da parte di altri), la Chiesa Cattolica, per mezzo di solenni, pubblici trattati si è per la prima volta formalmente impegnata a mantenere ed osservare il regime di statu quo, rinunciando effettivamente al suo diritto di adire anche in futuro - come ha fatto in passato - le istanze internazionali perchè lo ritornino, in suo favore, allo statu quo ante.

Ora gli sviluppi, rispettivamente sin dal 30 dicembre 1993 e sin dal 15 febbraio 2000, hanno messo in evidenza - ma era sempre certo e beninteso - che la ricerca della pace in Terra Santa, nella sua dimensione sovrapolitica ed universale, non si può semplicemente esaurire negli accordi bilaterali tra la Santa Sede e le due Nazioni, l’israeliana e la palestinese, e che questi accordi stessi debbono trovare il loro pieno senso in un contesto più ampio che comprenda anche garanzie giuridiche internazionali, centrate innanzitutto sulla «questione di Gerusalemme».[5]

Questa è stata dall’inizio la ferma convinzione della Comunità internazionale stessa, espressa già nella surricordata Risoluzione 181 (II) del 29 novembre 1947 - riconosciuta sia da Israele che dalla Palestina come fondamento della legittimità internazionale delle rispettive Dichiarazioni di Indipendenza . Allora, nel deliberare sul furuto della Palestina Mandataria, l’Onu riconosceva che, oltre al diritto di auto-determinazione spettante alle due Comunità nazionali che la inabitavano, quella Terra era - ed è - il «locus» di diritti ed interessi legittimi la cui titolarità apparteneva alle collettività mondiali delle tre grandi religioni monoteistiche e quindi, visto anche l’influsso che queste religioni avrebbero avuto sulla storia e la cultura di tanti popoli e nazioni, a tutta l’umanità. Sarebbe dunque sorta la questione di come tutelare adeguatamene questi diritti ed interessi legittimi dall’estensione universale in un territorio destinato ad essere diviso tra due Stati nazionali, prevedibilmente etnocentrici, abitati prevalentemente ciascuno dai seguaci di una sola delle tre religioni interessate, mentre la terza, la cristiana, sarebbe priva di alcuna presenza politicamente rilevante nell’uno e nell’altro Stato. L’Onu allora ideò un meccanismo tanto complesso quanto geniale che escludeva dal territorio dell’uno e dell’altro Stato il centro ideale e geografico del territorio, e cioè «la Città di Gerusalemme e dintorni». Questo corpus separatum sarebbe retto da un’amministrazione internazionale facente capo ad un Governatore che avrebbe altresì il compito di vigilare sul rispetto dei Luoghi Santi e delle istituzioni religiose anche nel territorio nazionale di ciascuno degli erigendi Stati.

Come è noto, questo piano non è stato osservato nella pratica, ma come è pure noto la Comunità internazionale ne ha continuato a rivendicarne il carattere vincolante, almeno finchè non si trovi un meccanismo sostitutivo che desse, a giudizio della Comunità internazionale, garanzie analoghe.

Rispetto al futuro della Città di Gerusalemme la Santa Sede è rimasta veramente prima sedes nel ricordare alla Comunità internazionale la propria convinzione e il proprio impegno storico e giuridico. E non si può dire che è stata inascoltata. Grazie soprattutto al Suo impegno, a circa cinquant’anni dalla Risoluzione 181, e con riferimento preciso al contesto attuale, una nuova Risoluzione adottata dall’Assemblea Generale il 25 aprile 1997,[6] avendo ricordato esplicitamente la 181 e la serie di Risoluzioni che ne sono seguite, «riafferma che la Comunità internazionale, per mezzo delle Nazioni Unite, ha un legittimo interesse nella questione della Città di Gerusalemme e nella protezione della singolare dimensione spirituale e religiosa della Città, come previsto nelle relative risoluzioni delle Nazioni Unite su questa questione». Poi, nel paragrafo operativo, l’Assemblea Generale «raccomanda che una soluzione globale, giusta e duratura della questione della Città di Gerusalemme... debba includere disposizioni internazionalmente garantite atte ad assicurare la libertà di religione e di coscienza dei suoi abitanti, come pure l’accesso permanente, libero... ai Luoghi Santi per i fedeli di tutte le religioni e nazionalità».

Mentre l’Onu non si è pronunciato sui particolari dell’eventuale meccanismo giuridico alternativo (rispetto a quello della 181), che consentirebbe di raggiungere gli stessi fini per altri mezzi, la Santa Sede, almeno sin dal citatissimo discorso pre-natalizio di Paolo VI di venerata memoria (22 dicembre 1967),[7] non ha mancato di propone autorevolmente gli elementi essenziali.

Più recentemente Essa ha avuto la grande soddisfazione di ottenere l’adesione di una delle Nazioni immediatamente interessate alla formulazione piuttosto completa - anche se necessariamente schematica - dell’oramai ben nota posizione della Santa Sede sulla questione di Gerusalemme. Infatti, il «Preambolo» dell’Accordo di base con la Palestina, avendo espresso effettivamente la rinuncia del futuro Stato palestinese ad ogni misura unilaterale rispetto alla parte di Gerusalemme eventualmente assegnatagli, adopera la stessissima formula da tempo proposta dalla Santa Sede - ipsissimis verbis - «uno statuto speciale internazionalmente garantito» per descrivere genericamente il desiderato presidio giuridico, specificandone la finalità e il contenuto normativo come la salvaguardia - sul piano del diritto internazionale - (a) della libertà di religione e di coscienza per tutti; (b) dell’eguaglianza giuridica delle tre grandi religioni monoteisticiche, delle loro istituzioni e dei loro seguaci; (c) dell’identità propria e del carattere sacro della Città, e del suo patrimonio religioso e culturale dal significato universale; (d) dei Luoghi Santi, della libertà di accesso ad essi e del culto in essi; (e) del regime giuridico di statu quo nei Luoghi Santi cui si applica.

E’ certo che Chi di dovere dovrà ancora adoperarsi energicamente perchè le Autorità palestinesi non si discostino da questo impegno solenne - morale e politico - nel quadro dei futuri negoziati che le vedranno cointeressate, come invece sembrava fosse il caso in occasione del fallito vertice di Camp David dell’estate del 2000, e dei negoziati che poi seguirono ad esso fino a quelli, ugualmente falliti, di Taba.

In verità la surricordata Allocuzione seminale di Paolo VI di v.m., nel tracciare, in effetti, gli elementi fondamentali del meccanismo giuridico che potrebbe sostituire quello della 181, parlava ancora, come la stessa 181, di garanzie internazionali che si estendessero a tutta la Terra Santa, e non si esaurissero nella sola regione di Gerusalemme. Più recentemente invece sarebbe sembrato a qualche osservatore - e forse persino a qualche «operatore» - che, per quanto riguardi la Chiesa, le garanzie riguardanti il resto del territorio si potrebbero ugualmente ottenere mediante gli Accordi bilaterali.

L’osservanza degli accordi bilaterali ricordati prima, pur con tutto il loro valore storico e programmatico, ma anche seminale e a lungo raggio probabilmente molto fruttuoso, non si può facilmente imporre. Necessariamente essi mancano di un «enforcemente mechanism», e, ancor molto più dei trattati bilaterali tra Stati, essi dipendono più o meno interamente dalla buona fede e dalla buona volontà dell’altra Parte. Questa caratteristica, tipica dei trattati di tipo «concordatario», è meno avvertita nel caso dei concordati piu «classici», con Stati la cui popolazione è in maggioranza cattolica, o che almeno contanto una comunità cattolica numericamente - e perciò politicamente - significativa. In ultima analisi, questi Stati non troppo facilmente disattenderebbero gli accordi Statio-Chiesa, per riguardo al peso politico della cittadinanza di religione cattolica. Radicalmente diversi sono i casi di Israele e Palestina, come si sà. Assenti garanzie «esterne» fornite dall’eventuale trattato multilaterale che potrebbe sostituire il meccanismo tracciato dalla 181,[8] i riferiti Accordi bilaterali potrebbero anche essere più facilmente disattesi dalle Nazioni interessate, senza che ci siano vere e proprie sanzioni da applicare. Essi potrebbero essere disattesi nella sostanza, o anche nello «spirito» da essi presupposto e richiesto. I segnali che dicano che tale preoccupazione non sia solo teorica o fantasiosa non mancano.

Così oltre la già ricordata dimenticanza da parte dei dirigenti palestinesi delle solenni dichiarazioni del «Preambolo» rispetto a Gerusalemme, preoccupa pure il fatto che, rispetto ad Israele, l’impegno di raggiungere un’»accordo globale» sulle questioni fiscali, di proprietà, e altre questioni economiche tra le Parti - contenuto nell’Art. 10 § 2 dell’Accordo fondamentale, non è stato ancora adempiuto, nonostante l’Accordo fondamentale ne prevedesse la firma entro due anni dalla ratifica, e cioè già nel 1996. Non ci sono tutti gli elementi per individuare le responsabilità del ritardo, ma il notevole ritardo nell’adempimento dell’impegno pattizio è pur sempre preoccupante.

La pace, in definitiva, non potrà che risiedere, nel complesso, nell’insieme, di strumenti giuridici di diversa natura, non necessariamente organicamente ma effettivamente collegati: il trattato di pace tra Israele e Palestina, il presidio giuridico internazionale per Gerusalemme e per i Luoghi Santi e le Comunità religiose in tutta la Terra Santa, e - rispetto alla Chiesa - gli Accordi bilaterali - raggiunti e ancora da raggiungere - con ciascuna delle due Nazioni, Nazioni evolutesi possibilmente in direzione sempre più democratica e sanamente laica.

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[1]AAS 86 (1994) pp. 716-729.

[2]L’Osservatore Romano, 16 febbraio 2000, p.9.

[3] Sul regime giuridico «tradizionale» dei rapporti tra la Comunità politica e le Comunità cristiane del Medio Oriente, v. D. M. A. JAEGER, The Fundamental Agreement Between the Holy See and the State of Israel: A New Legal Régime of Church-State Relations, in Catholic University Law Review (vol. 47 - 1988), pp. 427-440, hic 429-436.

[4] V. il testo ne L’Osservatore Romano, 12 dicembre 1993, e in internazionale romanistico-canonistico Il diritto romano canonico quale diritto proprio delle Comunità cristiane dell’Oriente mediterraneo: IX Colloquio internazionale romanistico-canonistico («Utrumque Ius: Collectio Pontificiae Universitatis Lateranensis, 26), Città del Vaticano 1994, pp. ix-xii.

[5]Sulla questione di Gerusalemme, e in particolare sulla posizione della Chiesa Cattolica, cf. A. MACCHI-G. RULLI, Il futuro di Gerusalemme, ne La Civiltà Cattolica, 1966 II, pp. 547-561; cf. etiam Gerusalemme Chiave della Pace, Jerusalem Key to Peace: Proposte per uno Statuto internazionale a cura di N. BUX e D.M. JAEGER, Bari, 2002.

[6]A/RES/ES-10/2.

[7]AAS 60 (1968) 18-33.

[8]Cf., ex.gr., D.M. JAEGER, Gerusalemme e dintorni: un pre-progetto, in Gerusalemme Chiave della Pace, pp.173-180. Lo stesso «pre-progetto» di trattato multilaterale è stato anche pubblicato sul sito www.enec.it.

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